Parlare di infezione significa parlare della materia viva che la subisce: corpi che si aprono, che si spezzano, che si deformano. Parlare di corpo è evocarne la carne, il sangue, i nervi, lo scheletro. Significa osservare l’individuo che lo abita, come coloro che lo circondano, chi ne rimane accanto e lo osserva mutare, così come chi lo teme, se ne sottrae, e se ne discosta. Una volta consumato, significa raccontare chi ne eredita le ferite. Parlare di un corpo che muore significa, inevitabilmente, parlare del trauma di chi lo deve sotterrare, di chi deve custodirne – o sopportarne – la memoria.
Alpha, il ritorno al cinema di Julia Ducournau dopo la Palma d’Oro con Titane, si presenta sin dall’inizio come un’opera complessa, pluritematica, stratificata. L’incipit, che proietta lo spettatore in un mondo distopico minacciato da una malattia assimilabile all’AIDS, è, almeno in apparenza, lineare: il racconto orrorifico di un virus che indebolisce i corpi, li pietrifica e infine li annichilisce. Ducournau rifiuta però ogni semplificazione e sceglie, ancora una volta, il sovraccarico, non tanto nella deformazione carnale propria delle opere precedenti, quanto nell’eccesso concettuale e narrativo. Partendo da un soggetto come la malattia infettiva (quindi dall’ovvio riferimento all’HIV, ma anche al più recente Coronavirus), la regista riconosce infatti come non sia sufficiente affrontarne la sola componente biologica, ma anche – e soprattutto – il duplice trauma che ne deriva, quello inerente al macrocosmo sociale, il primo, e al microcosmo familiare, il secondo.
A incarnare le molteplici declinazioni di questo concetto è Alpha, tredicenne che vive con la madre, premurosa ma soffocante, una donna impiegata come dottoressa e segnata dalla perdita del fratello minore Amin a causa del virus. Un tatuaggio a una festa, la sua iniziale, una A incisa sulla pelle, diventa detonatore del racconto: la paura sopita della madre si riattiva, e, per quanto la figlia non sia (forse) in reale pericolo, il ricordo del passato torna a circolare, sovrascrivendo il presente e intersecandosi ad esso: la memoria che diventa virus. Il film si articola allora su due differenti cardini: la malattia come male totalizzante per chi ne è colpito e come cicatrice indelebile per chi sopravvive. Nelle parole della madre, «qualcosa che se succede a te, succede a me». E viceversa.
Dalla sfera familiare il discorso si estende poi al sociale, a esplorare un sistema in cui chi porta il contagio non è vittima, ma puramente veicolo e untore. Quindi una minaccia da contenere e rigettare: il malato come oggetto di paura, non più come soggetto di cura. Ma non solo, il film si apre a ulteriori livelli concettuali: l’eco della malattia mentale interconnessa al trauma psicologico, l’ignoranza e la psicosi sociale verso l’estraneo, il legame tra morbo e tossicodipendenza, l’accenno a eutanasia e suicidio assistito. Aperture potenti, ambiziose, ma non sempre sviluppate con rigore, a volte disperse, a tratti abbozzate, ma che contribuiscono a creare un mosaico di grande intensità.
Sul livello visivo, Alpha appare più moderato rispetto al precedente Titane, ma non meno curato. La fotografia sottolinea la grande abilità della regista nel riprendere il corpo, oscillando tra tensione e distensione, e contrappone i toni più caldi aranciati, e avvolgenti del passato ai toni più grigi, freddi, quasi al neon, del presente distopico. Ne risulta un orientamento cromatico in grado di guidare lo spettatore nella stratificazione temporale e emotiva della narrazione. Ulteriore punto di eccellenza, il cast selezionato per il trittico dei personaggi principali, Mélissa Boros nel ruolo di Alpha, Golshifteh Farahani in quello della madre, Tahar Rahim, nei panni di Amin.
Il reale limite da segnalare è proprio nella gestione di un tale livello di complessità. Il film non cerca struttura o chiusura narrativa, piuttosto tenta di suggerire un microcosmo sensoriale di emozioni, situazioni umane, testimonianze sociali, ma tende a disperdersi nella sua stessa ambizione. Eppure, è una scelta in cui si rivela anche la coerenza autoriale di Ducournau: non la regista di un cinema dalla fruizione facile, ma un’autrice volontariamente respingente, scomoda e provocatoria. In questo senso, Alpha non è cinema di consolazione, ma di perturbazione. Ed è conferma, nonostante i limiti, della regista francese come una delle voci più radicali e interessanti del cinema contemporaneo: un’artista capace di trasformare la carne in concetto, la malattia in metafora, di annullare la distanza tra corpo, individuo, gruppo e comunità.
Beatrice Gangi




