In una recente intervista, Quentin Tarantino ha affrontato il tema delle trilogie. In particolare, il regista ha espresso la sua volontà di non voler vedere il quarto capitolo della saga di Toy Story, in quanto sostiene che il terzo film sia una conclusione impeccabile dell’arco narrativo, cosa rara nelle trilogie in cui solitamente si fatica ad azzeccare la chiusura. Quando l’intervistatore chiede «È per questo che non c’è Kill Bill 3?», il regista risponde: «Ho ucciso Bill, che altro devo fare?». La storia è finita, ogni tensione narrativa è stata esaurita, non c’è altro da dire. Questo dà lo spunto per una riflessione sullo stato dell’arte, o meglio dell’industria cinematografica americana.
La premessa fondamentale di questa riflessione, infatti, è proprio quella di valutare lo stato del cinema mainstream e del mercato cinematografico, come indice della salute di tutta la settima arte e del suo pubblico. Senza entrare troppo nello specifico dei dati, negli ultimi anni – e forse in quest’ultimo come non mai – la stragrande maggioranza dei film usciti in sala sono stati prequel, sequel e remake, salvo gli unici periodi in cui il cinema autoriale riceve un po’ di attenzione, ovvero la stagione dei festival e delle cerimonie di premiazione come gli Academy Awards. Anche questa piccola certezza, tuttavia, inizia a vacillare nel momento in cui i festival, come Venezia, accolgono titoli come Beetlejuice Beetlejuice e Joker: Folie à Deux. Operazione nostalgia da un lato, vero e proprio sequel dall’altro, a prescindere dall’esito delle pellicole, sono sintomi significativi di un degrado che si sta impadronendo dell’industria cinematografica, vittima di un paradosso che vuole la novità senza originalità.
Senza girarci troppo intorno, è chiaro che al centro della discussione troviamo il modello Disney, che continua la sua impetuosa produzione, raccogliendo non pochi flop nel suo tentativo di coinvolgere tutti contemporaneamente, senza un piano o una direzione. Questo voler cercare di arraffare ogni fetta di pubblico, questa tendenza al “totalitarismo” mediatico, sembra il comportamento disperato di un leader in decadenza, non quello di un’azienda che domina e definisce l’industria da almeno mezzo secolo. Qual è la direzione? Il pubblico vivrà ancora la stessa eccitazione quando uscirà Avatar 5 tra 10 anni? O l’ennesimo film Marvel fatto in poco tempo, con effetti scadenti a cui accorperanno una serie, un sequel e uno spin-off?
Volendo indagare le cause di questo sovraccarico di prodotto, si può trovare risposta in due fenomeni, uno presente da tempo e uno invece improvviso: la diffusione della cultura delle serie – potremmo dire dal boom di Netflix – e la pandemia del 2020-21. Se da un lato quello delle serie è un fenomeno cresciuto gradualmente, che ha dato e continua a realizzare prodotti di altissima qualità da fruire a casa, che ha fatto appassionare tanto pubblico (anche nuovo) all’intrattenimento audiovisivo, quindi anche avvicinando al cinema tramite le serie, dall’altro ha reso la serialità uno standard. Si è dato vita così a un sillogismo per cui se le serie sono prodotti di qualità, allora ogni prodotto di qualità deve essere una serie. Per cui è più facile per una major assegnare una storia nuova a personaggi e universi esistenti piuttosto che cominciare da zero o creare un film solitario che si esaurisce subito.
In secondo luogo entra il COVID, la pandemia che ha bloccato tutto per due anni, compreso il mondo del cinema, lasciandoci affamati di contenuti e abituando ancora di più il pubblico alle serie, cioè il prodotto di cui c’era maggiore scorta. E così ogni film uscito dopo è stato atteso, con l’acquolina in bocca, e poi divorato e presto digerito, in attesa del prossimo. Volendo continuare la metafora alimentare, allora, che nella cultura italiana funziona sempre, si potrebbe parlare di indigestione. Indigestione di prodotto la cui responsabilità è anche del pubblico. Pubblico che ingurgita ciecamente e assuefatto da prodotti semplici e veloci, che potremmo definire il fast food cinematografico, e non riesce a godersi la semplicità di un pasto frugale o, contrariamente, uno più raffinato. E proprio come il fast food, il modello Disney ha imposto questi prodotti molto conditi (di cast, di effetti, di azione), il cui piacere dura il tempo di consumarli, film e serie che stimolano altra fame, ma che non hanno alcun apporto nutrizionale.
Il giornalista vicedirettore de Il Post, Francesco Costa, ha diffuso il concetto di “dieta mediatica”, i “pasti” di informazione da consumare quotidianamente per vivere il presente in maniera consapevole e non inseguire i titoli dei social senza approfondire. Forse, egualmente, si potrebbe iniziare a pensare a una dieta filmica, per ripristinare i palati del pubblico, ricordando l’importanza della qualità dell’intrattenimento, non solo della quantità.
Le vittime principali di questo processo di produzione di massa sono stati soprattutto i kolossal, e quello che rappresentavano nel mercato. La definizione di kolossal conta due tratti fondamentali: la mole, di staff maestranze cast effetti costumi e denaro richiesti, e l’unicità, intesa anche come individualità del prodotto che, proprio in virtù di questo, si erge e spicca sugli altri. Successivamente, si è cercato di ampliare questa definizione con le grandi saghe della storia del cinema che, pur aumentando il numero di pellicole, mantenevano il tratto dell’unicità essendo di fatto un unico racconto diviso in più film. Data la buona riuscita dell’esperimento e con il grande interesse nato per gli universi dalle saghe, il mercato ha presto portato alla degenerazione del fenomeno negli esiti di cui si è già parlato.
La vita media nella memoria del pubblico di un prodotto si è quindi abbassata drasticamente. Si prenda l’esempio del fenomeno Barbie, forse tra i pochi titoli recenti ad aver lasciato un segno nella cultura pop, già seguito – a poco più di un anno dall’uscita in sala – da voci su un eventuale seguito o spin-off. Se prima la memoria di un film veniva tenuta in vita dall’home-video, dalla frequente riproposizione televisiva, adesso si tiene in vita solo con i sequel. Esempio lampante è Il gladiatore che, dopo 20 anni passati a essere quasi un archetipo di kolossal, si trova ad avere un sequel in arrivo che di certo si preannuncia spettacolare, ma il cui valore si perderà in mezzo all’oceano di offerta di cui verrà circondato.
Sono pochissimi gli autori capaci di svincolarsi da questo meccanismo, il cui unico merito è quello di aver ottenuto un’autorevolezza universalmente riconosciuta prima dei grandi cambiamenti di cui si è trattato. Il modello Disney è ormai così profondamente radicato nella cultura che per il pubblico più giovane è l’unico modello di cinema possibile. Cercare di capire se i giovani cineasti si sottometteranno a questo standard o avranno una risposta rivoluzionaria a questa idea di mercato è pura speculazione. Per ora, i nostalgici possono disintossicarsi con qualche sano rewatch.
Alberto Militello