“Goodbye, Dragon Inn” di Tsai Ming-liang – Recensione

Goodbye, Dragon Inn

Nel 2003, Tsai Ming-liang realizza uno dei suoi film più intensi, Goodbye, Dragon Inn, un saluto malinconico e doloroso ad un preciso modo di fare e di pensare la settima arte. In puro stile slow cinema, vero e proprio marchio di fabbrica delle produzioni del regista taiwanese, Goodbye, Dragon Inn è un’opera contemplativa con pochissime linee di dialogo, uno sguardo rivolto ad un’idea di cinema che ormai non c’è più, un discorso che abbraccia pienamente anche la sala cinematografica, ossia il luogo che per oltre un secolo è stato di fatto lo spazio predominante di fruizione del cinema.

In tal senso, Tsai Ming-liang conduce lo spettatore del suo film proprio all’interno di un cinema in chiusura di Taipei. L’ultimo spettacolo è un wuxia taiwanese del 1967, Dragon Inn di King Hu. La sala è semideserta, ma tra gli spettatori figurano personaggi particolari e insoliti, alcuni interessati al film, altri invece in cerca di qualcos’altro. L’incrocio tra cinema e passato non è un leitmotiv nuovo per il regista, pensiamo ad esempio alle immagini ricorrenti de I quattrocento colpi di François Truffaut e alla presenza di Jean-Pierre Léaud in Che ora è laggiù?. In Goodbye, Dragon Inn, però, non ci troviamo dinanzi a semplici riferimenti o omaggi, bensì ad un’effettiva riflessione sul medium cinematografico e sui suoi mutamenti. Invece di diventare parte integrante e autoreferenziale del testo cinematografico, come accadeva in Che ora è laggiù?, qui il cinema è un riflesso opaco, un oggetto in decadimento, una rovina (la sala cinematografica) che è simbolo e rimando di un’altra rovina (il cinema stesso).

Goodbye, Dragon Inn

Lo spettatore di Goodbye, Dragon Inn, così, è parte a sua volta dello stesso processo di sottomissione nei riguardi di una passività dolceamara al quale partecipano tutti i personaggi del film, ossia spettatori zombie e fantasmatici, figure ondivaghe e indecifrabili che a loro volta sono parte di un irrefrenabile collasso strutturale che coinvolge loro e il cinema. In tutto ciò, non vi è mai un effettivo slittamento verso territori del pensiero nichilisti, la visione di Tsai Ming-liang è sospesa tra l’accettazione del cambiamento e la nostalgia verso il passato. Da questo punto di vista, Goodbye, Dragon Inn appare piuttosto come una celebrazione della varietà dello sguardo, una presa di posizione sulla necessità di prospettive che si sovrappongano l’un con l’altra, intersecandosi e aprendo la via all’esplorazione di nuovi percorsi visivi e frontiere del senso.

Il pubblico della sala di Goodbye, Dragon Inn rappresenta in pieno il carattere plurimo dello sguardo: dagli attori di Dragon Inn Miao Tien e Jun Shi, che osservano il film – e dunque un passato che li riguarda in prima persona – con profonda commozione, al rassegnato proiezionista (l’onnipresente Lee Kang-sheng) che sta per perdere il lavoro, dal turista in cerca di un’avventura sessuale all’errante donna responsabile della biglietteria. Ad unire queste persone sono le immagini di Dragon Inn, frammenti che a più riprese invadono lo schermo in una perenne – per quanto allegorica – commistione tra passato e presente, l’unica certezza in grado di mantenere ancorati a sé, per una sola (e ultima) serata, i suoi spettatori. Si tratta di un addio o di un arrivederci?

Daniele Sacchi