Il Baracchino, la recensione della serie animata

Il baracchino

Nella battaglia delle piattaforme ci sono due generi in cui Netflix gode di un vantaggio abbastanza netto: le serie animate e la stand-up comedy. Tra Bojack Horseman e gli originali teatrali di comici italiani e internazionali, ben poco possono fare alcune perle sparute presenti sulle altre piattaforme. Con Il Baracchino, Prime Video sembra voler provare a colmare questo gap, con un prodotto furbo, intelligente e più stratificato di quanto le prime puntate possano far pensare. Sicuramente un esperimento ben riuscito.

Prodotta da Lucky Red, la serie ha sicuramente goduto di una massiccia campagna pubblicitaria, che non è sempre stata sinonimo di qualità nel caso dei prodotti di Prime Video Italia. Ripensando a tutto l’universo LOL, non ci troviamo di certo davanti a un esempio virtuoso, costituito da una serie di format ripetitivi e diluiti, resi godibili unicamente dalla presenza di comici anche di alto livello, ma penalizzati dalla ripetitività e dalla disperata ricerca del meme. Ne Il Baracchino vengono recuperati alcuni dei “veterani” di LOL, ma in un contesto scripted senza ombra di dubbio di maggiore spessore, accompagnati da altri volti noti della comicità italiana. Il risultato è una prima stagione breve, decisamente introduttiva, che pur con qualche insicurezza, sembra mettere le basi per un progetto ambizioso e promettente.

Nella serie, Claudia (Pilar Fogliati) è una giovane aspirante direttrice artistica, nipote di un’icona della comicità che proprio al Baracchino aveva trovato la sua fortuna. Oggi il comedy club è un luogo abbandonato, poco frequentato, pieno di ricordi e rimpianti, in cui la comicità ha poco spazio. Così la giovane cerca di dare nuova vita al locale, di ispirare i comici dilettanti che lo frequentano e di riaccendere la scintilla in Maurizio (Lillo), un unicorno ex agente, nonché proprietario del Baracchino.

La serie presenta diversi aspetti interessanti, in primis il mix di tecniche e stili di animazione, dall’utilizzo quasi esclusivo del bianco e nero – scelta il cui senso viene chiarito diegeticamente – all’impostazione da mockumentary. Un insieme di elementi già visti ma che funziona, tenuto insieme da una scrittura che fa ben sperare per il futuro. Sebbene questa prima stagione sia “timida” di eventi, riesce a porre comunque le basi per un prodotto di un certo spessore emotivo.

Se i primi episodi sembrano voler dipingere una serie unicamente comica e fuori dalle righe, con i tanti personaggi strani e le loro freddure, la seconda parte delinea tutt’altro tipo di storia, cioè l’eterno paradosso del dramma interiore del comico. Il paragone con l’ormai classico Bojack Horseman, trasposto in un universo italiano, è naturale, e in effetti gli elementi ci sono tutti, anche se la serie nel complesso non ha ancora preso il volo. Spetterà a un eventuale seguito rivelarci la buona riuscita di questo esperimento.

Alberto Militello