“Il cavallo di Torino” di Béla Tarr – Recensione

Il cavallo di Torino

Torino, 3 gennaio 1889. Un cocchiere sta fustigando il suo cavallo, dal momento che l’animale non sembra più intenzionato a muoversi. Il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche, presente tra la folla, raggiunge improvvisamente il cavallo e lo abbraccia, scoppiando in lacrime. È l’inizio del collasso mentale di Nietzsche, il quale passerà gli ultimi anni della sua vita in un mutismo totale e in una condizione di progressiva degenerazione fisica e psicologica, affidandosi alle cure della madre e della sorella Elisabeth. Ma, nello specifico, cosa ne è stato del cavallo? Béla Tarr, nel suo Il cavallo di Torino (2011) cerca di immaginarsi una possibile prosecuzione dell’episodio che secondo la leggenda avrebbe avuto il filosofo tedesco come protagonista, focalizzandosi però interamente sul destino del cocchiere e dell’animale.

Il cavallo di Torino, in quanto summa della poetica di Tarr e opera conclusiva della sua carriera (il regista ha infatti dichiarato ormai da tempo di non volersi più occupare di cinema), racchiude – come di consueto, d’altronde – tutti gli elementi caratteristici della sua visione estetica. Il ricorso al bianco e nero, l’uso costante del long take, la grande attenzione alla dimensione del silenzio, così come la continua reiterazione di atti e gesti ben precisi: sono tutti aspetti intrinsecamente legati all’idea di cinema del regista ungherese post Perdizione (1988) e che ritroviamo, senza alcuna sorpresa da questo punto di vista, ne Il cavallo di Torino.

Ad elevare però l’opera ad uno statuto più alto rispetto al resto della filmografia di Tarr è il substrato concettuale che la permea, a partire dalla sua idea narrativa sino ad arrivare al suo effettivo sviluppo e messa in scena. In primo luogo, Béla Tarr introduce lo spettatore alla routine del cocchiere e della figlia. I due vivono in un’abitazione di campagna insieme al cavallo, ripetendo quotidianamente gli stessi gesti e azioni, conducendo dunque un’esistenza all’apparenza monotona e priva di una direzione e scopo. Per sei lunghe giornate assistiamo al sussistere di una coazione a ripetere che è ormai diventata una parte integrante del loro essere.

Il cavallo di Torino

La vita prosegue senza alcuna emozione o sussulto, se non quando l’intervento di agenti esterni – imprevedibili e incontrollabili – non finiscono per rompere il meccanismo costitutivo che sta alla base di questa stazionarietà e cristallizzazione temporale. Il vento irrompe incessante e turbolento, il pozzo viene prosciugato da un gruppo di zingari, il cavallo non vuole più muoversi: le fondamenta della vita “precedente”, abitudinaria e misera, sono crollate ma padre e figlia non possono più cambiare il loro destino.

Il meccanismo, dunque, si è rotto, ma la vita è sempre quella. La vita è finita, e con sé anche il cinema stesso di Béla Tarr. Più ci avviciniamo alla conclusione de Il cavallo di Torino, più il movimento dell’immagine cinematografica sembra venir meno. Non è solo il cavallo a smettere di muoversi, ma anche l’immagine stessa. La “decisione” dell’animale è solo una parentesi metaforica in un discorso che ci parla soprattutto di uno spegnimento progressivo dell’arte filmica, uno sguardo rivolto verso l’opera del suo stesso autore. «Con Il cavallo di Torino, sono arrivato ad un punto in cui il lavoro è completo, il linguaggio è finito» (cfr.): per il regista ungherese non c’è più niente da dire, perché ha già detto tutto quello che poteva.

Ed è proprio attraverso lo spegnimento e l’annullamento dell’immagine filmica che Tarr centralizza la degradazione umana dei suoi protagonisti come il prodotto ultimo delle loro scelte di vita. Il cocchiere e la figlia non possono salvarsi dal destino che si sono costruiti cadendo nella trappola dell’abitudine, mentre il mondo attorno a loro cessa progressivamente di esistere. Se Dio in sette giorni ha creato il mondo, Béla Tarr in sei giorni lo ha distrutto. Il mondo non c’è più, ciò che rimane è solo il vuoto, l’oscurità, il nulla più assoluto e totale. Ma prima del nulla, ancora una volta, vediamo il riaffermarsi della ripetizione: la realtà attorno ai due personaggi sta cambiando, ma nessuna reazione avversa a quanto accaduto può fermare un processo che ormai è in corso, inarrestabile, e proprio in tal senso il cocchiere e la figlia non sembrano veramente scossi dal destino che li attende. Forse, il nulla più assoluto e totale era già iniziato in precedenza, molto prima delle frustate inferte durante l’episodio nietzscheano, segno che l’essere umano potrebbe aver già intrapreso un percorso degradante da un punto di vista metafisico ed esistenziale e dal quale non sembrerebbe esserci alcuna via di fuga.

Daniele Sacchi