L’île rouge di Robin Campillo, la recensione del film

L'île rouge

Nella programmazione del festival del cinema francese France Odeon, tenutosi al cinema La Compagnia di Firenze, non è passata inosservata l’anteprima nazionale di L’île rouge, quarto lungometraggio del regista, sceneggiatore e montatore Robin Campillo. Dopo la stesura della sceneggiatura di La Classe – Entre le Murs (Palma d’Oro 2008), la regia di Eastern Boys (vincitore della sezione Orizzonti a Venezia 2013) e 120 battiti al minuto (Grand Prix Speciale della Giuria e Queer Palm a Cannes 2017), Campillo decide di affrontare la dolceamara nostalgia per alcuni anni della sua infanzia trascorsi nell’ultimo periodo del Madagascar colonia francese.

L’île rouge non è però un film autobiografico, per quanto il regista stesso abbia affermato che tutti gli episodi mostrati sono realmente accaduti, piuttosto un montaggio emotivo di «frammenti di memoria militare e personale», per rubare l’ottima definizione proposta da Fabien Lemercier. È il mondo post-coloniale malgascio che mal sopporta gli ultimi brandelli di occupazione francese filtrato dall’immaginazione di Thomas, un ragazzino di dieci anni. Si badi bene, non filtrato dal suo punto di vista, ma dalla sua immaginazione. Questa differenza è necessaria poiché giustifica l’inserimento di alcune sequenze animate – compresa quella di apertura – che portano sullo schermo le avventure, ambientate in Madagascar, di Fantômette, supereroina di un fumetto francese degli anni Sessanta e Settanta.

Thomas osserva la vita dei grandi, di sua madre, di suo padre, ma anche delle altre persone che gli stanno intorno e poi interpreta e, di conseguenza, immagina. Ed è proprio questo ciò che Campillo, mediante una «logica onirica nella sequenza delle scene», vuole mostrare. L’île rouge è, quindi, molti film in uno, cercando di tenere insieme il personale e lo storico, le piccole emozioni e le grandi rivolte, ma soprattutto volendo restituire più una sensazione che raccontare una storia. Sensazione che traspare chiaramente dalla parole dello stesso Campillo: «Quando sono tornato in Francia da bambino, avevo una vera e propria nostalgia. […] Eppure, senza sapere bene perché, non volevo tornare in quel Paese. Era come se qualcosa si fosse rotto quando ho lasciato il Madagascar, e dovevo accontentarmi dei ricordi».

Il film è fin dall’inizio molto chiaro nel focalizzare il suo tempo e luogo di interesse. È il 1971 nella base militare 181 di Ivato e di lì a poco anche quell’ultimo avamposto dell’esercito francese dovrà essere smantellato. Le persone che vi abitano, ovvero famiglie dei militari francesi, dovranno ritornare in patria. La base militare, nella quale aleggia un’atmosfera da fine vacanza, è una vera e propria isola nell’isola, fisicamente separata dalla città con una recinzione. L’attenzione dello spettatore, con il procedere della narrazione, viene spostata dal dentro al fuori della base, partendo dall’osservazione della nostalgia che già emerge nei francesi in procinto di partire, per giungere alla felicità dei malgasci che festeggiano nell’ultima sequenza. Il film, infatti, si trasforma, dal tono intimista e strettamente privato passa alla denuncia e al contesto storico colonialista. Lo si vede molto bene nella sequenza che segna il cambio di registro: la lenta danza tra Bernard, un soldato francese, e Miangaly, una donna malgascia, la notte prima della partenza. L’apparente semplicità di una relazione stereotipizzabile nel giovane soldato innamorato della bella indigena, svanisce, mostrando un malsano desiderio di possesso figlio delle dinamiche di dominazione coloniale. Nonostante ciò, questo cambio di registro risulta molto forte, a tal punto da chiedersi se fosse necessario. Forse l’unico punto di criticità di un film che dà l’impressione di potersi tranquillamente concludere anticipatamente senza risultare incompleto.

L’immersione nel clima emozionale che caratterizza l’intera pellicola è resa anche grazie ad alcune accortezze tecniche come il formato più quadrato (1,37, quasi un 4:3) e la fotografia di Jeanne Lapoirie che ricordano i filmati d’epoca in pellicola. Per ricreare l’atmosfera ovattata e nostalgica del paradiso perduto, grande cura è stata rivolta anche alla colonna sonora originale realizzata da Arnaud Rebotini che, su indicazioni di Campillo stesso, doveva rifarsi ai suoni tipici della fine degli anni Sessanta, come, ad esempio, il mellotron usato nei dischi dei King Crimson. Infine, le inquadrature: grandi panorami del Madagascar ripresi dagli aerei militari da cui si lanciano i paracadutisti francesi e particolari di lastre di aragonite tagliate per realizzare tavoli da esportare in Francia. Un montaggio simbolico che permette alle immagini di parlare senza la minima interferenza della parola.

L’île rouge arriverà in sala in Italia grazie a Movies Inspired nella primavera del 2024 (qua il trailer sottotitolato in inglese), nel mentre avremo sicuramente ripassato un po’ di storia contemporanea.

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Matteo Bertassi