Primo capitolo della trilogia di Haugerud sui rapporti umani, Sex si struttura su una scala di domande. Si chiede se un uomo, anche eterosessuale, possa anelare ad essere desiderato nel modo in cui è desiderata una donna. E si chiede in quale modo, dunque, sia comunemente desiderata una donna. Se un rapporto sessuale possa essere solo fisico. Se per natura sia solo fisico, e gli venga attribuito un valore spirituale che non gli dovrebbe competere. Sul motivo per cui siamo convenzionalmente monogami, una propensione spontanea, una costrizione limitante, il sistema corretto di essere o solamente uno dei tanti.
Per Haugerud la risposta è variabile tra un individuo e l’altro. Lo manifesta nei suoi due protagonisti maschili (interpretati da Thorbjørn Harr e Jan Gunnar Røise), amici e colleghi spazzacamini di Oslo. Il primo indaga il proprio lato femminile, a seguito di una serie di sogni in cui viene approcciato da una figura identificata come David Bowie (o Dio). Il secondo si confronta con la moglie in quanto ha accettato, per impulso e istinto, di avere un rapporto sessuale con un cliente maschio. L’interiorità e le motivazioni alla base di queste premesse sono scandagliate in una lunga sequenza di conversazioni intime tra confidenti (colleghi, familiari, conoscenti), tematicamente centrate su genere, desiderio e carnalità. In via generale, sulla natura del sesso.
Le suggestioni del regista, per quanto stimolanti, sono limitate da una progressione circolare e la pellicola non riesce a sviluppare una riflessione che superi le intuizioni di premessa. Allo stesso tempo, l’esposizione soffre dall’essere totalmente scaricata sul continuo flusso di dialogo, solo a tratti realmente pungente e talvolta dispersivo. I concetti di sessualità come di uno spettro complesso, e sulla società contemporanea come retta da un sistema di convenzioni condivise più o meno connaturali, sono di fatto attuali, rilevanti, ma ridondanti consideratone la protratta ripetizione. Rimane un plauso la volontà di Haugerud di discorrere tramite un gergo quotidiano, intimo, e con uno sguardo aperto e mai giudicante verso i propri soggetti e le rispettive vulnerabilità.
Funzionanti sono l’implementazione della sottile ironia propria del cinema di Roy Andersson e di brevi ma incisive sequenze di intermezzo dall’interpretazione maggiormente simbolica, unici momenti di respiro della narrazione. Lo risulta meno la direzione stilistica e visiva, costruita per sottrazione ma fondamentalmente piatta. A concludere, Sex si consolida come il capitolo maggiormente verboso della trilogia di Haugerud e, coerentemente alla cronologia di produzione, come il più acerbo.
Beatrice Gangi