L’amore che non muore di Gilles Lellouche, la recensione del film

L'amore che non muore

L’amour ouf di Gilles Lellouche (L’amore che non muore il titolo italiano), più che un’operazione di cinema totale, ne è il manifesto tentativo. Melodramma criminale in forma di saga pop, il film traspone la storia di due giovani innamorati – Jacqueline detta Jackie, medio-borghese, e Clotaire, piccolo delinquente – in una parabola iper-stilizzata, traboccante di riferimenti cinefili, costruita per accumulo e saturazione.

Ambientato in un paesino francese negli anni ’80, il film esibisce un controllo tecnico e visivo notevole: camera in costante movimento, cromatismi esasperati, montaggio sincopato e intermezzi tendenti all’epopea musicale. L’universo narrativo che ne deriva è fortemente artificiale, non tanto per sfidare la verosimiglianza, quanto per costruire un film-mondo. Un’opera, quella di Lellouche, che si regge su regole personali, implosioni controllate, un linguaggio iperbolico e una scala morale interna.

Tuttavia, se la confezione è volutamente esorbitante, è assente, a livello contenutistico, una reale sostanza. La storia, pur facendo leva su una certa universalità (la storia d’amore condannata alla nascita, il romanticismo come forma di redenzione, l’irriducibilità del destino), si appiattisce nella ripetizione di topoi già ampiamente metabolizzati dal genere. I personaggi sono funzioni, archetipi più che individui, e la loro traiettoria narrativa si disperde nella vaga rielaborazione dei propri riferimenti (su tutti, agli adattamenti, cinematografici e non, del dramma musicale romantico West Side Story). Ne risulta un film che – complice l’eccessiva durata – non si evolve, ma si dilata. E nel farlo, perde tensione.

L’elemento più fragile resta proprio il cuore emotivo dell’opera. Nonostante la centralità della storia d’amore, il film sembra più interessato alla propria superficie che all’intimità dei suoi protagonisti. Si rivela, a più riprese, un esercizio stilistico che si esaurisce nella propria ambizione di grandiosità e fatica a comunicare davvero. Convincenti, rimangono le prove attoriali, in particolare di Mallory Wanecque e Malik Frikah nelle controparti ancora adolescenti dei protagonisti.

L’amour ouf è, in conclusione, un film che attrae lo sguardo, ma coinvolge con fatica. Un film in cui, dietro a una forma ipercinetica e colorata, si cela un racconto sorprendentemente canonico, quasi passivo nella sua riformulazione di suggestioni classiche. Lellouche mette in scena un’opera che, seppur traboccante di idee, finisce per aderire a una forma di manierismo pop, egoriferito alla propria estetica, e poco interessato alla forza del proprio contenuto.

Beatrice Gangi