5 miniserie Netflix, tra dramma e impegno sociale

miniserie Netflix

In un universo strabordante di contenuti come quello delle piattaforme streaming, la serialità ha trovato una forza e una vitalità considerevoli. È pur vero che con una crescita tale del medium lo “spreco” sia tanto, con serie dalla vita brevissima o eccessivamente lunga, e grandi nomi o grandi firme riportate in vita pur di conferire al prodotto un qualche tratto di originalità o creare interesse per prodotti assolutamente nella media. Tuttavia, in questo meccanismo, la miniserie si afferma come un genere privilegiato, che abbina l’approfondimento della narrazione tipico della serialità tradizionale con una elevata cura stilistica, dovuta all’unicità del prodotto, che non vive in funzione delle stagioni successive ma solamente per se stesso. L’apripista di questo modo di concepire le serie tv è senza dubbio una certa serialità britannica, da sempre caratterizzata dalla brevità, sia nel numero di puntate che nelle stagioni. Netflix, che proprio della serialità è diventato uno dei principali produttori e promotori del mondo, ha senza dubbio colto la potenza del mezzo, realizzando un insieme di titoli dalla grande potenza espressiva, uno tra tutti Maniac (Fukunaga, Somerville, 2018), anche se da un certo punto di vista il based on true events sembra essere il leitmotiv della piattaforma per quanto concerne questo tipo di produzioni.

Quella che segue è, quindi, una lista di cinque miniserie Netflix, uscite tra il 2019 e il 2020, che toccano argomenti vari, ma sempre in maniera interessante e impegnata. Il grande successo de La regina degli scacchi (Frank, Scott, 2020) è escluso di proposito da questa lista, in quanto se ne è già ampiamente parlato qui.

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Stateless (Ayres, Blanchett, McCredie, 2020)

Stateless è una miniserie Netflix interamente australiana che vede tra i produttori e i creatori Cate Blanchett, la quale interpreta anche un piccolo ruolo. L’opera, che fa riferimento ad eventi realmente accaduti, affronta la difficile vita nelle strutture australiane che ospitano rifugiati e richiedenti asilo. Tre storie, nello specifico, si intrecciano nei sei episodi che compongono la serie: una guardia costretta al continuo confronto, non sempre pacifico, con i vari personaggi che occupano il centro e con la difficoltà della sua posizione, un uomo afgano e sua figlia che portano con sé i traumi di una fuga clandestina e una donna affetta da disturbi psichici (Yvonne Strahovski) erroneamente detenuta. Il passato e i traumi dei protagonisti vengono raccontati parallelamente al difficile svolgimento della loro vita all’interno del centro di detenzione, avvolto e isolato dal deserto australiano.

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The Eddy (Thorne, 2020)

The Eddy è una miniserie Netflix incentrata su un locale jazz della periferia parigina, il cui proprietario, musicista di successo, è costretto a fare i conti non solo con la malavita, ma anche con quegli elementi del suo passato che lo tormentano, gli stessi che lo hanno portato a smettere di suonare. Tralasciando la trama, non particolarmente coinvolgente, è la musica la vera protagonista dell’opera, l’elemento che unisce e lega le vite di tutti i personaggi, e che quasi le purifica. È interessante notare, in particolare, la trasformazione dei protagonisti di The Eddy dentro e fuori dal palco, così come le sinergie e i rapporti tra i musicisti all’opera e nella vita, indagando allo stesso tempo anche le difficoltà e la dura vita da musicista professionista.

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The Spy (Raff, 2019)

La difficile esperienza di Eli Cohen, spia israeliana su territorio siriano, tratto da una storia vera. Il protagonista è interpretato da Sacha Baron Cohen e, come spesso accade con gli attori noti principalmente per i loro ruoli comici, la sua resa come attore tragico è notevolissima. Gideon Raff, già tra i produttori della serie Homeland (Gansa, Gordon, 2011-2020), cattura perfettamente sia il perenne stato di allerta in cui la spia è costretta a vivere, sia la lotta interiore tra le sue due identità, che tocca tutti i livelli della sua persona: da un lato il mite Eli, contabile, marito fedele e innamorato, dall’altro Camel, ricco magnate cinico e distaccato, e ancora Eli l’israeliano, e Camel il patriota siriano.

Unorthodox

Unorthodox (Karolinski, Winger, 2020)

Esther Shapiro (Shira Haas) è una giovanissima orfana del quartiere ebraico ortodosso di Brooklyn. Vittima del pettegolezzo, di una cultura iperconservativa e opprimente, fugge alla volta della Germania per sottrarsi a un matrimonio obbligato. In una città poliedrica e aperta come Berlino, Esther riscopre se stessa, riequilibra il rapporto con le sue radici, con il suo corpo e con la sua cultura. L’approccio quasi infantile della protagonista al mondo “moderno” si accompagna a momenti dall’incredibile carica emotiva, resi egregiamente dall’interpretazione dell’attrice. Tutto ciò in un universo paradossale in cui New York, la grande mela, è la città in cui la libertà viene meno e Berlino diventa la meta agognata per la giovane ragazza ebrea.

When They See Us

When They See Us (DuVernay, 2019)

Ava DuVernay da tempo impiega la sua arte per denunciare e raccontare il razzismo negli Stati Uniti, le sue cause, le sue conseguenze e le sue manifestazioni. Tra i tanti lavori della regista sono di particolare interesse a riguardo, tra quelli reperibili su Netflix, XIII emendamento (2016), documentario che affronta il tema del sistema carcerario statunitense, e la miniserie When They See Us (2020). Quest’ultima racconta dettagliatamente il cosiddetto caso della jogger di Central Park dell’89, in cui cinque giovanissimi ragazzi afroamericani di Harlem vennero ingiustamente accusati, processati e incarcerati per lo stupro di una donna nel parco newyorkese. La regista riesce a rendere perfettamente il dramma personale e familiare vissuto dai protagonisti, affrontando tutte le sfaccettature e le sfumature di una questione profondamente radicata nella storia degli Stati Uniti.

Alberto Militello