CINEGAZE #2 – “I Soprano”, la serie capolavoro di David Chase

I Soprano

Sono passati 21 anni dalla messa in onda del pilota de I Soprano e l’influenza del capolavoro creato da David Chase è ancora oggi ben percepibile nel panorama seriale. I Soprano ha di fatto cambiato significativamente il modo di concepire la serialità, rendendola più “cinematografica” sia da un punto di vista narrativo sia da un punto di vista formale. Non è un caso infatti che, originariamente, il concept di Chase consistesse proprio nella realizzazione di un film con al centro la storia singolare di un gangster in terapia a causa dei suoi problemi relazionali con la madre. Dopo aver abbandonato la possibilità del lungometraggio per passare invece a un contesto seriale, più adatto al racconto ricco di elementi che aveva elaborato, David Chase si trova ad incassare il no di diversi network a causa proprio del concept alla base della serie, considerato troppo rischioso e poco allettante per un pubblico appassionato di storie di gangster. Fortunatamente, HBO accetta il rischio e il resto è storia: 6 stagioni di successo di critica e di pubblico, decine di premi e nomination durante le award season e un lascito pesante per le serie che dovranno cercare di colmare il vuoto lasciato dalla sua conclusione.

Una serie più “cinematografica”, quindi, ma in che senso? Sin dalla prima stagione, è evidente come I Soprano si muovano, da un punto di vista registico e sceneggiativo, su un piano diverso rispetto ad altri show efficaci dell’epoca come The X-Files, E.R. o Law and Order, caratterizzati sì da narrazioni più mature e strutturate rispetto al passato, ma ancora legati ad una visione meno d’insieme e più rigorosamente dipendenti dalla necessità di dare un peso specifico alla loro struttura, cercando di garantire una specificità univoca a ciascun singolo episodio e sacrificando così la resa complessiva della serie. Scrivere per la televisione un tempo significava fornire risposte immediate, risolvere costantemente i dubbi dello spettatore e portare a un compimento soddisfacente i propri archi narrativi. I Soprano, similmente ad un’opera monumentale per la storia della serialità televisiva come I segreti di Twin Peaks, ricorre invece ad una narrazione spalmata lungo diverse stagioni, articolate come veri e propri film dalla durata estesa. Le risposte ai quesiti centrali della serie non vengono servite su un piatto d’argento ma solo suggerite, lasciando allo spettatore il compito di interpretare e di risemantizzare ciò che osserva. La base, di fatto, della modalità di racconto seriale più diffuso al giorno d’oggi.

Lo spettatore viene così progressivamente introdotto nella vita dei protagonisti de I Soprano, la famiglia criminale dei DiMeo, attiva nel New Jersey e liberamente ispirata alla reale famiglia mafiosa DeCavalcante. I Soprano, però, non sono né Il Padrino (1972, Francis Ford Coppola) né Quei bravi ragazzi (1990, Martin Scorsese). Sarebbe stato facile e soprattutto sicuro riproporre qualcosa di già visto, ricorrendo a formule e immaginari ben precisi e ormai consolidati, legati alla percezione della criminalità organizzata italoamericana, ma la serie ideata da David Chase cerca in realtà di infrangere continuamente le aspettative spettatoriali attraverso un racconto anticonvenzionale, incentrato soprattutto sulla figura controversa di Tony Soprano, interpretato magistralmente da James Gandolfini.

La prova dell’attore statunitense di origine italiana – scomparso a soli 51 anni nel 2013 a Roma a causa di un arresto cardiaco – rientra tra le migliori della storia del cinema e della serialità, un esempio perfetto di applicazione della Meisner technique (da non confondere con il method acting) attraverso la quale l’attore riesce a creare un perfetto equilibrio tra la propria interpretazione e quella dei suoi partner, giocando molto sulla componente più istintiva e meno razionale della recitazione. I Soprano non potrebbe esistere senza questo Tony Soprano, o comunque la serie ne risulterebbe incredibilmente penalizzata. Perché se da un lato è vero che il personaggio persisterebbe comunque – e ricordiamo pure che la serie, oltre a Chase, vede la collaborazione alla sceneggiatura e alla regia di figure come Terence Winter (showrunner di Boardwalk Empire e sceneggiatore di The Wolf of Wall Street di Scorsese), Tim Van Patten (regista ricorrente di Boardwalk Empire, The Wire e dei primissimi episodi de Il trono di spade), Matthew Weiner (showrunner di Mad Men), Steve Buscemi e tanti altri grandi autori – dall’altro lato è anche vero che probabilmente ci troveremmo di fronte ad un prodotto complessivamente diverso tanto è forte l’impatto dell’attore sulla resa dell’opera nel suo insieme.

Com’è possibile intuire dalle interviste rilasciate dall’attore stesso e dai ricordi dei suoi colleghi, James Gandolfini non si considerava una star. Una delle particolarità di Tony Soprano, infatti, è proprio il fatto di non essere il classico protagonista di una serie televisiva, proponendosi come l’antesignano per eccellenza dei vari Don Draper e Walter White della contemporaneità. In più, oltre a porre un “cattivo” al centro della sua narrazione, la serie va ben oltre, ritornando all’idea originaria di Chase: I Soprano sono la storia di un gangster mafioso in psicoterapia. David Chase non solo porta in prima serata un tema poco rappresentato come quello della malattia mentale, ma vi costruisce attorno un intreccio incredibilmente singolare che prende le mosse dalle necessità di un criminale di confrontarsi con se stesso. I Soprano, dicevamo, non sono Il Padrino: riuscite ad immaginarvi Don Vito Corleone dallo psicanalista? Il modo in cui Chase struttura I Soprano è imbevuto nel tessuto del contemporaneo e problemi nuovi richiedono soluzioni nuove, anche all’interno di un sistema rigido come quello mafioso che prevede un codice d’onore inviolabile alla sua base.

Le discussioni tra Tony e la sua psicanalista, la dottoressa Melfi (Lorraine Bracco), sono dunque uno degli elementi determinanti e fondamentali dell’esperienza proposta da I Soprano. Al centro vi è il rapporto irrisolto tra Tony e sua madre, uno dei nodi narrativi più importanti delle prime stagioni dell’opera di Chase. Gli episodi della serie sono costantemente caratterizzati dal confronto diretto tra Tony e Melfi, con il gangster che si trova così a liberare il proprio mondo interiore dinanzi agli occhi dello spettatore. Ad emergere sono soprattutto i lati più oscuri e nascosti dell’uomo, e se da un lato le sue esternazioni sono spesso condannabili moralmente in virtù delle modalità di pensiero tipicamente mafiose che le supportano, dall’altro lato è facile trovarsi invece ad empatizzare con gli aspetti più umani che si trova ad esibire.

Depressione, attacchi di panico, le insicurezze nel relazionarsi con la moglie e con i figli: la necessità de I Soprano di tematizzare a dovere la psiche del suo protagonista, specialmente nel suo rapporto con l’alterità, è importante tanto quanto le questioni mafiose, gli affari e le lotte criminali della famiglia DiMeo. Tony vive una doppia vita, irrimediabilmente tesa tra i suoi doveri all’interno dell’organizzazione criminale di cui fa parte e i suoi doveri di marito e padre. E anche in questo troviamo una netta separazione tra la serie tv di Chase con i prodotti dello stesso genere. Il figlio di Tony ad esempio, A.J. (Robert Iler), non è di certo Michael Corleone, se vogliamo mantenere l’analogia forzata con Il Padrino. A.J. è un millennial spaesato, incapace di comprendere il suo ruolo nel mondo, specialmente a causa della posizione sociale del padre. Allo stesso tempo, un altro dei nodi più importanti della serie è la relazione tra Tony e sua moglie, Carmela (Edie Falco), un aspetto significativo della narrazione capace di esplorare a fondo un altro dei temi portanti de I Soprano, il ruolo della donna all’interno di un contesto perlopiù maschile come quello mafioso.

E ancora, per tornare alla psicanalisi, una delle componenti essenziali de I Soprano non può che essere quella del sogno e della sua interpretazione. Spesso, le risposte che Tony Soprano – così come accade anche ad altri personaggi principali – non riesce a trovare con le parole o con il confronto risiedono proprio nella dimensione onirica. L’irrazionale e l’inspiegabile diventano superficie materiale, concreta e tangibile attraverso sogni e visioni. Anche la natura, e nello specifico il vento (ma anche gli animali, pensiamo alle anatre dell’episodio pilota o all’orso della quinta stagione), gioca un ruolo fondamentale manifestandosi come una forza quasi sovrannaturale, sia all’interno dell’onirico sia nel reale. «Sometimes I go about in pity for myself, and all the while, a great wind carries me across the sky». Il ripiegare in se stessi diventa fonte di conoscenza, ma non sempre si tratta di un’azione consapevole, quanto una conseguenza dell’agire di forze ineffabili, difficilmente inquadrabili e categorizzabili.

Si può notare come, sino ad ora, non si sia parlato di violenza o di azione, due caratteristiche tipiche di narrazioni di questo genere. In realtà, questi elementi fanno pienamente parte de I Soprano ma in modo peculiare, e il momento in cui diventa realmente evidente che la serie non è “come le altre” è il quinto episodio della prima stagione, College, in cui Tony Soprano accompagna la figlia Meadow (Jamie-Lynn Sigler) a visitare diverse università per scegliere su quali puntare per il suo futuro. Di per sé, l’episodio è in realtà atipico nell’orizzonte complessivo della serie perché potrebbe benissimo funzionare come un film autonomo, dal momento che si focalizza interamente sul rapporto tra i due e non richiede una grande conoscenza degli episodi che lo precedono. La particolarità nella messa in scena della violenza durante l’episodio – Tony deve liberarsi di un ex membro della famiglia DiMeo durante il suo viaggio – risiede non solo nella brutalità dell’atto, ma anche nel contesto che lo circonda. Contesto che, per lo spettatore, appare come terribilmente vicino al quotidiano: l’episodio, al di là del mettere in mostra un’azione tipica di una famiglia americana, si concentra infatti perlopiù nel mostrare come sia Tony sia la figlia cerchino di nascondersi dei segreti a vicenda, mettendo in moto una serie di stratagemmi retorici non inusuali per la persona comune. Lo spettatore, ne I Soprano, viene continuamente trasportato da setting familiari a momenti in cui la violenza esplode con una tremenda irruenza, e viceversa, con la serie che agisce operativamente nella costruzione di entrambi gli scenari come un’unica cosa, seguendo una singola ed inevitabile direzione.

Si potrebbe continuare per ore a parlare di tutti i piccoli microcosmi che gravitano attorno alla famiglia Soprano, a partire da figure eccentriche come Silvio Dante (interpretato da Steven Van Zandt, il chitarrista di Bruce Springsteen) o Paulie Walnuts (Tony Sirico) sino ad arrivare alla coppia composta da Christopher Moltisanti (Michael Imperioli) e Adriana La Cerva (Drea de Matteo) o allo spregevole Ralph Cifaretto (Joe Pantoliano). Sarebbe meglio però recuperare direttamente la serie, perché ancora oggi merita di essere vista e rivista in quanto una delle massime espressioni della serialità televisiva americana.

Daniele Sacchi

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