Cinema horror: cercare di definire l’orrore

Cinema horror

Il seguente testo è tratto dal mio libro Il cinema horror contemporaneo. Scenari, derive, ossessioni, acquistabile a questo indirizzo.

Cos’è l’orrore? Come si inserisce questa specifica pulsione – se così vogliamo definirla – nel dispositivo-cinema? Come reagisce lo spettatore embodied con un sentimento che ha sicuramente delle sfumature razionali ma che il più delle volte si manifesta come un concentrato di irrazionalità? Cosa ricerca un individuo in un film che spaventa, disgusta, orripila?

Il cinema horror – o, più precisamente, l’insieme di produzioni che cercano di esprimere e trasmettere un sentimento di orrore, senza voler necessariamente legare il discorso ad un’ottica indissolubilmente vincolata al cinema di genere – produce un certo tipo di sapere. È una forma di conoscenza che si muove secondo due direzioni, a volte in modo parallelo, a volte con delle inevitabili sovrapposizioni: da un lato, segue la via dell’individuo e delle sue pulsioni più celate e recondite; dall’altro lato, si muove invece per un percorso che tende più all’universale, o perlomeno verso una parte di esso. Il cinema horror è in grado di parlarci dell’essere umano e del reale tanto quanto altre tipologie di film, con la differenza principale che, banalmente, risiede nelle modalità operative che persegue e nella risposta apparentemente negativa che suscita nello spettatore ad un livello strettamente emotivo.

Definire cosa sia, però, l’orrore sembra a prima vista una sfida impossibile. La paura è qualcosa di ampiamente soggettivo, irriducibile ad un’esperienza totalizzante dell’essere umano. Ciò che spaventa un individuo non è detto che susciti la stessa reazione in un’altra persona. Eppure, il cinema horror è stato una costante della storia del cinema, un tipo di prodotto capace di sopravvivere ad altri generi e in grado di ripresentarsi ciclicamente nelle sale cinematografiche. Nel corso del tempo, narrazioni e stili sono profondamente cambiati, ma l’orrore ha sempre trovato il modo di imprimersi sui nostri schermi. Una possibile risposta al reiterato successo del genere può essere rilevata ritornando al concetto espresso poc’anzi: il cinema horror parla di noi e parla del nostro mondo, confrontandosi continuamente con le paranoie, le derive e le ossessioni di ogni epoca, rimodulandole sotto molteplici punti di vista e presentandole allo spettatore attraverso forme nuove. Questa considerazione non fa alcuna luce sulla domanda relativa a cosa sia effettivamente l’orrore, ma aiuta a comprendere come la rappresentazione di ciò che è brutto, degradante, vile, abietto, disgustoso, angosciante, abbia sempre fatto parte sinora della storia del medium cinematografico, dandosi come qualcosa di ineliminabile, destinato a tornare e a ritornare.

Parlando invece di definizioni, sebbene sia impossibile descrivere l’indescrivibile (e l’horror spesso tratta esattamente di questo, ossia il dare forme visibili a ciò che non può averle), il filosofo statunitense Noël Carroll ha provato a parlare dell’horror correlandolo con il concetto del mostruoso. Il mostro, nella tradizione horror, è un «personaggio straordinario nel nostro mondo ordinario», a differenza delle fiabe in cui è, specularmente, «una creatura ordinaria in un mondo straordinario». Nei suoi studi, Carroll propone una tassonomia precisa di ciò che, in potenza, può essere considerato come parte del mostruoso o meno. Semplificando: se la raffigurazione cinematografica di un mostro appare come minacciosa, la nostra risposta emotiva sarà la paura; se il mostro è potenzialmente impuro, la risposta spettatoriale consisterà invece nel disgusto. L’horror, secondo Carroll, richiede però che il mostro si dia sia come minaccioso sia come impuro, così da suscitare realmente nello spettatore un sentimento di orrore – che definisce in maniera più specifica come art-horror – inteso come un’unione tra la paura e il disgusto.

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Sigmund Freud descrive con il concetto di Unheimliche (il perturbante) «quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare». È qualcosa che è parte di noi stessi, un rimando ad una parte effettiva del nostro inconscio e dei nostri moti pulsionali. Si tratta però del ritorno del rimosso, una familiarità dunque che non riconosciamo e che ci appare in realtà come estraneità, generando una risposta emotiva che si tramuta in paura e angoscia. Julia Kristeva, nel suo illuminante Poteri dell’orrore, parla invece di una forma di degradazione, l’abiezione, «una di quelle violente e oscure rivolte dell’essere contro ciò che lo minaccia e che gli pare venga da un fuori o un dentro esorbitante, gettato a lato del possibile, del tollerabile, del pensabile». È una rivolta che mira ad allontanarsi dalla minaccia, ma in un duplice gesto non può che avvicinarvisi, «attratto verso un altrove seducente quanto abbandonato».

Nella riflessione di Kristeva, emerge in particolar modo la quasi completa ineffabilità dell’abietto, in quanto aspetto identificabile solamente sulla base della sua contrapposizione al soggetto, capace di manifestarsi peraltro anche a partire dall’individuo stesso. Ancora una volta, le parole chiave che cercano di attribuire una dimensione specifica a questa datità sfuggente che è la paura, il degrado, l’orrore, sono la percezione di una minaccia e l’idea di un disgusto che ci protegge, inteso come repulsione che desidera espellere l’abiezione, per quanto alla base di tutto vi sia un desiderio inspiegabile che ci avvicina ad essa. L’obiettivo? La catarsi, forse. Ma in tutto ciò non dobbiamo dimenticarci che l’oggetto principale verso cui tende il nostro discorso è il cinema, e soprattutto che il cinema è un’arte, e che l’arte a sua volta è proprio «il linguaggio delle sensazioni», come sosteneva Gilles Deleuze. Ogni forma d’arte viene trasmessa attraverso le peculiarità di uno stile e, nel cinema, l’incontro sensorio tra lo spettatore e il film è mediato dal montaggio, dalla colonna sonora, dalle inquadrature, dal rapporto tra campi e piani, dall’illuminazione, e così via. Questi aspetti sono gli oggetti di un incontro esperienziale: non vi è alcuna astrazione immediata da parte dello spettatore, bensì una percezione diretta di ciò che ci viene mostrato e – se si osserva attentamente – anche del come questo avvenga.

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Dalla filosofia alla psicologia, possiamo scavare in lungo e in largo alla ricerca di una risposta su cosa sia l’horror, su quali prospettive è più allineato un film rispetto ad un altro, o considerazioni simili. In realtà, l’idea di voler a tutti i costi delimitare, categorizzare, totalizzare un’esperienza come quella offerta dal cinema horror rischia probabilmente di fare un torto al medium cinematografico stesso.

Se il cinema è un dispositivo, il mistero della natura dell’horror non possiamo che ricercarlo proprio al suo interno, trattandone le opere come se fossero dei veri e propri percorsi della conoscenza, capaci di insegnarci qualcosa su di noi e sul reale alla pari di un testo filosofico e con una dignità propria.

Daniele Sacchi