Eileen, la recensione del film di William Oldroyd

Eileen

New England, anni Sessanta. Eileen Dunlop (Thomasin McKenzie) è una giovane segretaria di un carcere minorile dallo sguardo vacuo e malinconico che convive con il padre vedovo e alcolizzato e che riempie i suoi vuoti esistenziali con autoetorismo e caramelle. L’arrivo inaspettato della nuova sensuale psicologa del carcere, Rebecca (Anne Hathaway), cambierà radicalmente la direzione dei pensieri di Eileen: fra le due nascerà fin da subito un’intesa tanto forte quanto ambigua, rivelando che dietro le apparenze agli antipodi delle due donne si nasconde una certa comune propensione a pensare fuori dagli schemi.

Tratto dall’omonimo romanzo di Ottessa Moshfegh, nonché co-sceneggiato dalla stessa, e diretto da William Oldroyd, regista di Lady Macbeth, Eileen è un ipnotico thriller dalle venature noir in cui la contrapposizione fra il gelido paesaggio del nord degli Stati Uniti del dopoguerra e l’atmosfera calda e ovattata degli interni riflette a pieno il dualismo interiore delle due protagoniste.

Eileen è continuamente sbilanciata tra un’ardente pulsione erotica dalle connotazioni bisessuali e una cinica apatia sistematicamente incalzata dal personaggio del burbero e alcolizzato padre Jim, interpretato perfettamente da Shea Whigham, il quale sottolinea la poca stima nei confronti della figlia, che, nonostante si prenda cura di lui, sembra essere lì solo per riempire goffamente uno spazio. La non convenzionalità di Eileen è simboleggiata dal fatto che non sia in cerca di un marito con cui costruire una famiglia e che non spenda i soldi che guadagna al lavoro per comprare vestiti nuovi, ed è questo il motivo per cui agli occhi di Jim appare come inadeguata e, come viene definita da lui stesso in una scena del film, troppo “semplice”.

L’altra faccia della medaglia è la carismatica ed elegante Rebecca, che intenzionalmente seduce Eileen esasperando un’amicizia al femminile che fin da subito puzza di manipolazione e segreti. Rebecca è una donna che dichiaratamente sente di non essere in linea con i metodi dei trattamenti psicologici utilizzati nel carcere minorile, e probabilmente il non conformismo del suo personaggio si ferma qui, senza considerare la passione per alcol e sigarette.

Il reale desiderio di evasione e di riscatto fa parte solo di Eileen, che vede ingenuamente in Rebecca la soluzione ad una vita piatta ed opprimente. Un simbolo ricorrente di tale desiderio è la pistola del padre, che Eileen impugna ciclicamente anche solo immaginando di usarla, come veicolo di annullamento di se stessa e di chi ha intorno, ma anche come strumento di liberazione.

Il film, che ricorda forse intenzionalmente il pattern di Carol di Todd Haynes, convince soprattutto nella prima metà, dando forma alle fantasie inconfessabili della protagonista e alla sua percezione soggettiva di luoghi e persone, e alimentando un clima di tensione attraverso il mistero che ruota attorno al personaggio di Rebecca. La seconda parte, pur tingendosi di nero e rievocando verso la fine il genere pulp, risolve progressivamente l’enigma della storia sfociando però nel clichè e stroncando bruscamente la sensualità della relazione tra le due donne.

L’unica forma di sperimentazione per un film un po’ troppo manieristico resta la straniante sovrapposizione in alcune scene dei piani di realtà e sogno, pur non sufficiente a compensare una risoluzione di trama frettolosa e incompiuta.

Chiara D’Agostino