Elvis, la recensione del film di Baz Luhrmann

Elvis

Baz Luhrmann è uno di quei registi che spezza in maniera piuttosto netta l’opinione del pubblico. Dopo diversi adattamenti letterari, un musical e un’epopea romantica, Luhrmann torna sul grande schermo con Elvis, applicando il suo peculiare stile al genere del biopic, raccontando la vita di una delle personalità più emblematiche della musica – come anche della cultura statunitense – nel mondo. Tra la solita impeccabile mimesi degli attori americani (tra i quali spicca un superbo Austin Butler), i numeri musicali spettacolari e un punto di vista interessante, il regista australiano porta in scena un intreccio coinvolgente, soffermandosi e alimentando la natura “mitica” del cantante più famoso al mondo: Elvis Presley.

Come per Il Grande Gatsby e Moulin Rouge!, il racconto inizia dalla fine, con un narratore amareggiato che ci offre la propria versione della storia. In questo caso, il punto di vista è quello di Colonel Tom Parker (Tom Hanks), colui che scoprì Elvis e lo fece conoscere al mondo intero, nonché il villain della storia. Con un runtime considerevole, Luhrmann affronta la vita di Elvis già dalla giovanissima età e dal momento della folgorazione – quasi divina – che ha portato il cantante a esibire il suo talento naturale per la musica.

Nonostante l’alone mitico che permea la figura di Elvis Presley, il film non tralascia la grandissima influenza musicale e culturale esercitata su di lui dalla popolazione afroamericana, dai fondatori di un genere che già prima di Elvis portava avanti un uso della danza, della chitarra, del ritmo che sono poi quei tratti distintivi che hanno permesso al cantante di Memphis di affermarsi come icona mondiale. Quest’ultimo tassello risulta fondamentale perché oltre ad adeguare il film agli standard di inclusività che non si possono più non rispettare oggi, rende anche giustizia a una parte della storia musicale americana a lungo repressa, sfruttata e mai valorizzata. Questo “prestito”, questa contaminazione dello stile di Elvis, non mina il grande talento del cantante, ma anzi, è come se lo rendesse ancora più universale. Il sottotesto amaro, anche se appena accennato, individua la differenza principale tra il successo di Elvis rispetto a quello di un artista come B.B. King (o di qualsiasi altro musicista blues e jazz dell’epoca) unicamente nella differenza di colore della pelle.

Nonostante la durata e l’ampissimo arco temporale e narrativo coperto dal film, non si ha mai purtroppo un vero approfondimento reale del cantante, il che non si configura come un’approssimazione o una falla, ma piuttosto come un meccanismo per alimentare ulteriormente la figura mitica di Elvis. Per buona parte del film non c’è un Elvis on stage e un Elvis off stage, è sempre uguale a se stesso: o meglio, Elvis esiste solo sul palco. Ben presto il nodo della vicenda personale del cantante, svincolato dalla diatriba legale che lo lega al suo manager, si identifica nella dipendenza dalla fama, da quell’adrenalina che solo il pubblico riusciva a dargli.

Affrontare la vita di una persona così celebre vuol dire fare delle scelte e prendersi delle responsabilità a livello narrativo. In altre parole, serve adottare una prospettiva che includa degli aspetti, dei tratti, dei fatti, lasciandone fuori altri. Lo stile registico eclettico di Baz Luhrmann si adatta perfettamente alla vita di Elvis, al punto da far sembrare il film quasi meno “audace” rispetto alle sue opere precedenti. In conclusione, Luhrmann ci offre un film incredibilmente coinvolgente che, una canzone dopo l’altra, riesce a far rivivere una vera leggenda della musica. I difetti non mancano, ma il risultato è efficace.

Alberto Militello