Dopo quattordici anni di silenzio, la saga di Final Destination torna in vita con un sesto capitolo che, pur non reinventando il format alla base del franchise horror, ne riafferma l’identità. In tal senso, Final Destination Bloodlines è un ritorno alle origini, tanto nella struttura narrativa quanto nella sua grammatica catastrofista, in cui la Morte – silenziosa, inarrestabile, implacabilmente creativa – torna a reclamare ciò che le è dovuto. L’impalcatura narrativa, ovviamente, è un canovaccio visto e rivisto. A causa di un intervento che ha alterato “l’ordine naturale delle cose”, la Morte sopraggiunge a mietere le sue vittime. A monte, però, vi è un elemento singolare: una genealogia del trauma che prende le mosse da un preciso momento storico.
La sequenza d’apertura del film, infatti, è ambientata nel 1969 all’interno di una torre panoramica. La giovane Iris Campbell (Brec Bassinger) è testimone di una serie di eventi che portano a una casuale e orribile tragedia durante la quale lei stessa perde la vita. Si tratta però di un incubo ricorrente della nipote Stefani (Kaitlyn Santa Juana): in realtà, sua nonna Iris (interpretata da anziana da Gabrielle Rose) è viva e vegeta, perché grazie a una premonizione è riuscita a salvare tutti sulla torre. Il suo intervento, tuttavia, ha cambiato irrimediabilmente il futuro, mentre le regole del gioco, in pura tradizione Final Destination, sono chiare: l’alterazione del disegno della Morte non potrà che causare un effetto domino che non lascerà scampo a chi è sopravvissuto (e ai loro discendenti).
Nella saga, l’idea di “rompere il ciclo” o di “capire come funziona la Morte” è una costante. In questo, Final Destination Bloodlines non ha pretese filosofiche né ambizioni autoriali, ed è proprio in tale consapevolezza che si intravede la sua onestà. L’innesto del dramma familiare, per quanto prevedibile nella sua costruzione (l’incontro con la nonna isolata, la rivelazione del diario, la riconciliazione madre-figlia), riesce comunque ad arricchire il film di un minimo di tensione emotiva. L’idea che la Morte perseguiti non solo chi ha “interrotto il piano”, ma anche chi da quella deviazione è nato, introduce una dimensione ereditaria che, sebbene sia solo abbozzata, svolge un ruolo convincente come pretesto narrativo.
Pur con questa novità basilare, i registi Zach Lipovsky e Adam Stein non si avventurano mai in sostanziali deviazioni di rotta. Al contrario, affondano le mani nell’iconografia della saga e la aggiornano con coerenza e gusto per il dettaglio macabro: ogni morte è uno snodarsi di sventure e coincidenze, orchestrato con una tale assurdità che in alcuni momenti sfocia nell’ilarità demenziale. È questa, d’altronde, la forza ambigua del franchise: un equilibrio precario tra il gore e il grottesco, tra il terrore e il “cartone animato” del massacro. E strappa anche un sorriso – un sorriso dolceamaro – il cameo di Tony Todd nel suo ultimo ruolo cinematografico (l’attore è scomparso lo scorso anno), un’eco dei film precedenti che ne canonizza la figura con una degna uscita di scena. In definitiva, Final Destination Bloodlines fa esattamente ciò che ci si aspetta da un film di questo tipo: intrattiene e diverte, con cinismo e perizia, né più né meno, senza alti né bassi.
Daniele Sacchi