“King Richard” di Reinaldo Marcus Green – Recensione

King Richard

Gli anni ‘90 sono rimasti tristemente famosi per il grande fiorire di baby-star – parallelamente ai loro burnout precoci – che mettevano in luce la difficoltà dei genitori nel gestire il grande impatto che successo e cospicue somme di denaro portano nella vita di un adolescente talentuoso. Se poi la famiglia in questione proviene dal ghetto di Compton, si comincia a delineare la figura di Richard Williams in King Richard – Una famiglia vincente, padre di due stelle del tennis: Venus e Serena Williams.

Nel terzo lungometraggio di Reinaldo Marcus Green, Will Smith (nei panni proprio di Richard Williams) sembra rispolverare molti dei tratti del personaggio di Chris Gardner ne La ricerca della felicità (Gabriele Muccino, 2006), unitamente a uno studio accurato del ricco repertorio di immagini e video relativi alla famiglia Williams, portando avanti una tradizione mimetica ormai consolidata nel cinema statunitense. In effetti, sono molti i tratti in comune con il film di Muccino, a partire da quel sogno americano inseguito attraverso le mille difficoltà di un padre che usa il suo ingegno per cercare di emancipare la famiglia e i figli. Si ritrova anche una certa continuità con gli altri lavori di Reinaldo Marcus Green, che sembra avere molto a cuore storie ispirazionali in puro stile americano, contestualizzate però in situazioni sociali ai margini.

King Richard

Il disagio legato al colore della pelle in King Richard è quel gradino in più che il padre deve superare per proteggere e portare al successo le figlie. È ammirevole il modo in cui la dedizione, quasi ottusa, del protagonista viene rappresentata, parallelamente non tanto alla crescita, ma al dispiegamento dei retroscena del personaggio che lo rendono man mano più comprensibile a chi guarda. Non c’è genere filmico più insidioso del film biografico, soprattutto se si parla del mondo dello sport e di personaggi ancora in vita e, come in questo caso, piuttosto influenti. Quest’ultimo tratto era di certo assente in quell’ottimo titolo che fu The Fighter (O. Russell, 2010), che aveva delle caratteristiche affini, come una genuina voglia di raccontare la difficile storia di un atleta conosciuto, seppur da una nicchia di persone. Lo stesso non si può dire di King Richard, in cui l’autoreferenzialità e il controllo delle informazioni è palese, soprattutto quando la lista dei produttori vede tra le sue fila lo stesso Will Smith e le sorelle Williams.

In ogni caso, King Richard resta un’interessante storia di emancipazione, di impegno, di sport, in cui i personaggi adeguatamente caratterizzati sono pochi, ma il cui risultato finale è equilibrato e di ottimo intrattenimento. Il film di Reinaldo Marcus Green è un titolo adatto non solo agli amanti dello sport, ma anche agli appassionati di quel cinema statunitense fatto di biopic motivazionali ormai definibile quasi come un “classico” della nostra epoca.

Alberto Militello