La chimera di Alice Rohrwacher, la recensione

La chimera

È uscito nelle sale italiane il 23 novembre La chimera, scritto e diretto da Alice Rohrwacher e presentato in concorso alla 76ª edizione del Festival di Cannes. Si tratta del quarto lungometraggio della regista toscana, nonché terzo e ultimo capitolo di una trilogia dedicata alla memoria, dopo Le meraviglie (2014) e Lazzaro Felice (2018). Ambientato negli anni Ottanta in una piccola città sul mar Tirreno, il film racconta la storia del giovane archeologo inglese Arthur (Josh O’Connor) e della sgangherata banda di tombaroli di cui fa parte. Il passato del protagonista è legato a doppio filo alle vicende di questa banda di ladri che ruba dalle tombe corredi etruschi e altre meraviglie antiche per poi rivenderle sul mercato nero dell’arte a collezionisti privati.

Arthur, come un rabdomante, possiede un dono prezioso che mette al servizio dei suoi compagni: percepisce il vuoto della terra, che coincide con tombe a camere – sepolte nelle profondità del suolo – dove sono nascosti tesori di mondi passati («là sotto ci sono cose che non sono fatte per gli occhi degli uomini, ma delle anime»). Quello stesso vuoto però l’ha lasciato in lui il ricordo del suo amore perduto, Beniamina, (Yile Vianello) una delle figlie della signora Flora, interpretata da Isabella Rossellini.

La chimera è un film poetico, ambizioso e profondo, la cui molteplice essenza è già interamente racchiusa nel suo titolo. Una chimera è una creatura mitologica composta da quattro bestie con quattro anime differenti e nel suo cinema Rohrwacher assembla spesso – complice il suo passato da montatrice – parti diverse che coesistono tra loro, come in questo caso, dove ibrida immagini e formati 35mm, 16mm e super 16mm. La chimera però è anche un sogno irraggiungibile, «ognuno insegue la propria, senza mai riuscire ad afferrarla», ed è qui che quest’immagine così suggestiva assume ancor più valore simbolico, diventando ricerca di qualcosa, un amore perduto, una nostalgia secolare.

Il film si fa viaggio interiore, scoperta continua di segreti rimasti a lungo sepolti, magari anche dentro noi stessi, in una continua riflessione sul tempo e sul rapporto degli uomini con il proprio passato. Per tutta la narrazione, l’atmosfera rimane sospesa – o per meglio dire, appesa – come suggerisce il manifesto del film, chiaramente ispirato all’arcano XII dei tarocchi, l’Appeso. Arthur è chiamato da tutti “Lo Straniero” come a voler sottolineare la sua natura altra. Un estraneo alla vita, come diceva Albert Camus. L’Appeso rappresenta proprio «colui che guarda il mondo al contrario, da un’altra prospettiva» immagine che torna visivamente anche nel rovesciamento dell’inquadratura ogni volta che Arthur sente il vuoto sottoterra. Nell’interpretazione di Jodorowski questa carta indica anche un momento della vita in cui si può «scendere più a fondo», nel sottosuolo per l’appunto, che nel film è carico di misteri e tesori da scoprire, come a suggerire un dialogo costante tra l’interno e l’esterno, tra i vivi e i morti.

Nonostante una recitazione non sempre a fuoco, La chimera racchiude un universo immaginifico ben definito da Rohrwacher, che qui trova la sua massima forza espressiva e che regala un finale poetico dal grande impatto emotivo. Le suggestioni evocate rimangono impresse ben oltre la visione, proprio per le sue tematiche individuali e al tempo stesso universali. La chimera è un sogno collettivo in cui perdersi e ritrovarsi e, forse, riuscire ad accedere con nuove chiavi a zone inesplorate della nostra immaginazione.

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Martina Dell’Utri