«One last time». Sarà davvero l’ultima missione impossibile per Ethan Hunt e il suo team? Ad oggi, Mission: Impossible – The Final Reckoning è stato pubblicizzato come l’ultimo capitolo del franchise quasi trentennale guidato da Tom Cruise, ma mai dire mai. Fatto sta che il film scritto e diretto da Christopher McQuarrie (al timone della saga da Rogue Nation) è interamente costruito su questa singolarità, sul fatto che si tratti effettivamente di un episodio conclusivo. Lo vediamo, specialmente, nella sua prima parte, con un reiterato tentativo di dimostrare un legame tra i film precedenti, come se fossero parte di un’unica grande operazione intertestuale, una forzatura autoreferenziale che imbriglia questo The Final Reckoning allontanandolo dalle qualità del precedente – e ottimo – Dead Reckoning.
Così, per una gran fetta del film ci troviamo di fronte ad un Mission: Impossible senza mission, perso nel navigare ai margini di un intreccio eccessivamente arzigogolato, il quale deve essere necessariamente (e continuamente) spiegato, quando poi, una volta ridotto al suo minimo comune denominatore, non rappresenta nient’altro che il solito costrutto manicheo. Contro il gruppo di “buoni” capitanato da Ethan Hunt troviamo il supervillain bondiano Gabriel (Esai Morales), sopravvissuto nel film precedente e ancora intenzionato a prendere il controllo della skynettiana Entità, una minaccia tecnologica che rischia di causare un’apocalissi globale. Ritornano anche i veterani Ving Rhames, Simon Pegg e Henry Czerny, oltre alle new entries del film precedente Hayley Atwell e Pom Klementieff, in un mix (riuscito) tra figure del passato e nuovi innesti, con il ricorso a diversi interpreti in ascesa (Tramell Tillman da Scissione, Katy O’Brian da The Mandalorian e da Love Lies Bleeding) e una gradita sorpresa dal primo film, il personaggio di William Donloe interpretato da Rolf Saxon.
Fortunatamente, dopo il tepore della prima ora e mezza (il film dura quasi tre ore), nel secondo tempo McQuarrie ritrova la bussola, abbandonando la verbosità per riscoprire la forza visiva e cinetica del franchise, regalando allo spettatore due action piece che possiamo facilmente considerare tra i migliori della saga. Il primo vede Ethan Hunt cimentarsi in un’immersione subacquea estrema tra i resti del sottomarino Sevastopol, affondato in Dead Reckoning, andando a incrociare sensazioni di pura suspense con gli orrori del confronto tra l’uomo e l’abisso, mentre il secondo – che ha dominato il marketing dedicato al film – riguarda il confronto tra protagonista e antagonista su un biplano in volo. In entrambi i casi, si tratta di esempi di stunt eccezionali che incarnano al meglio l’essenza primigenia di Mission: Impossible e tutto il discorso di superomismo e di superamento dei limiti personali che, inevitabilmente, abbraccia una produzione cinematografica di questo tipo.
Perché se, da un certo punto di vista, Tom Cruise riusciva a fare un (leggero) passo indietro in Dead Reckoning, facendo risplendere in particolare il cast femminile, in The Final Reckoning si riprende completamente la scena, ergendosi a unico possibile salvatore e pacificatore dell’intera umanità. Se i meriti dietro al successo meramente ludico dell’esperienza visiva di quest’ultimo Mission: Impossible sono indubbi, gli interrogativi circa il valore quasi messianico di Cruise come uomo-icona, “infallibile” e “invincibile” nella sua datità e concretezza, sono del tutto legittimi.
Daniele Sacchi