“Signs” di M. Night Shyamalan – Recensione

Signs

M. Night Shyamalan è un regista curioso. Dopo una personale golden age produttiva che lo ha visto scrivere e dirigere film molto interessanti, il cineasta indo-americano sembrava ormai essersi perso in opere mediocri e senza senso come l’involontariamente trash E venne il giorno (2008), veicolo di una banalissima metafora sullo scontro tra l’uomo e la natura, o come l’apocalittico quanto inutile After Earth (2013). Il recente Split (2016) tuttavia sembra essere un leggero passo in avanti rispetto ai precedenti abomini, ma i fasti del passato appaiono ancora ben lontani. Passato nel quale possiamo scavare con piacere per riportare alla luce un titolo molto interessante, Signs, uscito nel 2002.

Signs, prima ancora di essere un film su un’invasione aliena, è soprattutto una riflessione sulla famiglia, sul fato, sulle coincidenze, sulle capacità di un individuo di mettere in discussione il proprio assetto valoriale per rivoluzionarlo o per, magari, confermarlo ulteriormente. Come intuibile dal titolo, l’opera di Shyamalan è un film che parla di segni, ma quali esattamente? Sono prima di tutto quei segni che non appaiono come immediatamente comprensibili e che necessitano di un’indagine approfondita per chiarire la loro relazione significativa con i soggetti stessi che si trovano a doverli interpretare. Cerchi nel grano, animali violenti, bicchieri d’acqua, una crisi di asma: è possibile individuare una struttura di riferimento che collega questi elementi o le loro interconnessioni dipendono da pure coincidenze?

A trovarsi al centro di questo dilemma è Graham Hess (Mel Gibson), un ex prete protestante che dopo la morte della moglie per colpa di un incidente d’auto ha smarrito la propria fede. Signs rappresenta il percorso di messa in discussione da parte di Hess dei principi ai quali ha sempre creduto, in un processo semicatartico che lo pone di fronte al se stesso del passato e al se stesso attuale. I figli Morgan e Bo, insieme al fratello Merrill (Joaquin Phoenix) e all’ufficiale Paski, svolgono il ruolo di supporto del protagonista nell’affrontare la vita posteriore al decesso della moglie e all’arrivo degli alieni, conducendolo a una costante riflessione sulle sue azioni.

Le modalità stesse attraverso le quali Graham finisce per convivere con l’idea che delle entità extraterrestri siano effettivamente giunte sul pianeta Terra sono estremamente sintomatiche di quanto l’ex prete stia effettivamente vivendo interiormente. Inizialmente i cerchi nel grano vengono visti come uno scherzo di cattivo gusto, mentre la notizia ufficiale dell’arrivo di numerosi oggetti non identificati nei cieli di tutto il mondo scatena in Graham una reazione di scetticismo che lo porta a nascondere la televisione nel ripostiglio.

Signs

Inoltre, sebbene il protagonista di Signs veda chiaramente una figura non umana nei campi di grano, non sembra essere ancora pronto per accettare la realtà della situazione, esattamente come lo spettatore che, durante la maggior parte del film, si trova ad osservare un reiterato flashback risalente alla sera dell’incidente d’auto della moglie ma il cui significato apparirà come chiaro solo alla fine. Significato il quale necessita da parte di ogni singola individualità di essere corroborato con la propria Weltanschauung. Quale senso possiamo attribuire ai segni che ci troviamo di fronte? Si tratta di segni del destino o del puro caso? Provvidenza divina o un gioco estremo di coincidenze?

Stilisticamente il film è in linea con le altre produzioni del primo Shyamalan: movimenti di macchina molto lenti, un montaggio che mantiene un ritmo pacato anche nelle fasi maggiormente concitate, un uso accurato del sonoro ad enfatizzare coerentemente il mood di ogni scena e un focus sulle interazioni tra i personaggi (anche non principali) con l’idea di caratterizzarli dettagliatamente. È interessante notare inoltre come Shyamalan abbia deciso di dare un ruolo essenzialmente di contorno agli alieni invasori per soffermarsi invece sulle vicende della famiglia Hess. L’alieno in Signs appare come una figura sì destabilizzante, ma soprattutto in qualità di evento sconvolgente sul piano globale: è in televisione che vediamo chiaramente e in figura intera l’aspetto degli extraterrestri per la prima volta, così come gli oggetti non identificati sopra le città di tutto il mondo non appaiono che al telegiornale. In Signs l’alieno è il nemico assoluto, colui che vuole fare razzia della Terra e che deve essere assolutamente fermato. A noi spettatori però questo non interessa, grazie anche alla capacità del regista di soffermarsi e di porre l’accento su altri eventi maggiormente funzionali alla trama: quello che ci importa nel film infatti è il destino di Graham e della sua famiglia insieme al significato che possiamo trarre dalla loro esperienza, null’altro.

Proprio in tal senso, e in virtù della conclusione stessa del film, sarebbe riduttivo assegnare a Signs lo statuto di film essenzialmente cristiano nell’analisi delle sue implicazioni morali. Certo, il cammino di Graham Hess ha un preciso inizio, uno svolgimento e una risoluzione lineare e coerente nei confronti del suo percorso, degli avvenimenti che lo hanno segnato insieme alla chiave di lettura che infine ha adottato per dare un senso agli eventi che ha dovuto affrontare. Tuttavia, Signs sembra chiedere qualcosa di preciso ai suoi spettatori: in quanto osservatori super partes, ognuno con il proprio percorso individuale alle spalle, saremmo giunti alle stesse conclusioni di Graham? Il fato del protagonista è scritto, è segnato, è impresso su pellicola, ma per quanto riguarda il nostro? Qual è il significato dei segni che incontriamo durante la nostra vita quotidiana? Rispondere a questi interrogativi con una verità assoluta e ben definita sembra impossibile: l’unica verità, se di verità possiamo parlare, è nostra ed è incredibilmente personale.

Daniele Sacchi