The Crowded Room, la recensione della miniserie

The Crowded Room

Si può essere colpevoli di un crimine che non si sa di aver commesso? Questo è il vero quesito dietro a The Crowded Room, la miniserie originale Apple TV+ ispirata al romanzo di Daniel Keyes The Minds of Billy Milligan, a sua volta tratto dalla vera storia del criminale statunitense Billy Milligan. La miniserie racconta una versione lievemente alterata e romanzata dei fatti, regalando un’esperienza cangiante e avvincente che si muove dal thriller puro al racconto psicologico al legal drama, con interpretazioni molto convincenti, soprattutto quella di Tom Holland che si allontana un po’ da quell’immagine da “eterno ragazzino” figlia dei suoi ruoli nell’universo marveliano.

Danny Sullivan (ovvero Billy Milligan, interpretato da Tom Holland) si trova coinvolto in una sparatoria pubblica per la quale viene accusato e arrestato. Veniamo subito trasportati nelle vicende del timido Danny che, dopo aver incontrato i personaggi più strani e disparati, lo portano apparentemente ad essere incastrato per tentato omicidio. Ben presto lo vedremo interrogato dalla psicologa e professoressa Rya Goodwin (Amanda Seyfried), la quale ci aiuterà a comprendere la vera natura di Danny e i dolorosi retroscena legati al suo passato.

La struttura della serie è nettamente tripartita. All’inizio veniamo coinvolti in quello che si presenta come un ottimo thriller, pieno di personaggi pericolosi e fuori dalle righe, in cui la figura di Danny – di cui condividiamo la prospettiva – risulta quasi marginale, con Holland che in parallelo ci regala un’interpretazione apatica e inespressiva. Nella seconda parte ci viene posta la realtà dei fatti, dalla prospettiva della professoressa, dove Holland può finalmente mostrare le sue abilità attoriali in quello che finora è il suo personaggio più profondamente drammatico, in un racconto del dolore straziante e toccante. In ultimo, si ritorna sul crime, con la cronaca di un processo storico, soprattutto nel contesto della letteratura scientifica in ambito psicologico.

L’aspetto più interessante di The Crowded Room è legato alla capacità di farci confrontare con i nostri limiti morali, con la nostra coscienza. I ribaltamenti di prospettiva sottolineano in maniera categorica quanto la narrazione di un episodio ne possa influenzare il giudizio, soprattutto da parte dell’opinione pubblica. In un America dove in larga parte il destino dell’imputato è affidato a una giuria “di suoi pari” è essenziale trovare le parole, gli esempi e le immagini giuste per raccontare una condizione impossibile da afferrare e anche da accettare da un occhio esterno. Quella giuria è il pubblico, è lo spettatore che si cruccia su un quesito quasi controintuitivo, che diventa una scommessa quando si parla di un disturbo difficilissimo da sondare come il disturbo dissociativo d’identità.

The Crowded Room sembra apparentemente una serie atipica per Apple TV+, visto che la piattaforma ha abbracciato ormai da tempo la tendenza di prodotti comfort come Ted Lasso o Shrinking, ma in verità è perfettamente in linea con i tentativi mediali recenti di fare awareness sulla salute mentale, come dimostra anche il messaggio alla fine di ogni puntata con le indicazioni per chiedere supporto e segnalare problematiche affini a quelle della serie, sicuramente un tema molto in voga negli Stati Uniti. In ogni caso, tralasciando il contesto della piattaforma, The Crowded Room è in ultima analisi un prodotto ben costruito che sfrutta bene l’economia del suo format, dimostrandosi in grado di intrigare continuamente grazie ai cambi di prospettiva e all’unicità del racconto.

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Alberto Militello