The Fabelmans di Steven Spielberg, la recensione

The Fabelmans

Dopo un anno dall’uscita del suo West Side Story, arriva in sala il nuovo attesissimo film di Steven Spielberg. Scritto a quattro mani con Tony Kushner, The Fabelmans è la personalissima lettera d’amore di Spielberg al cinema e alla famiglia, le due metà che fin da bambino hanno plasmato la sua creazione artistica. Un film che è più un sogno ad occhi aperti – personale, eppure universale – dove per la prima volta il regista statunitense mette in scena l’autobiografia della propria infanzia e giovinezza. Spielberg scava nella propria memoria, ritorna alle origini e apre il suo cuore allo spettatore, offrendogli un catartico racconto di formazione. 

Il viaggio nel mondo dei sogni e della vita di Spielberg inizia una sera di dicembre del 1952, Sam Fabelman (il suo alter-ego interpretato da Mateo Zoryan) è un bambino di sei anni che, alquanto terrorizzato, si appresta a vedere il suo primo film al cinema, Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. De Mille. Il padre Burt (Paul Dano) è un ingegnere informatico e, in quanto uomo molto pragmatico, cerca di incuriosirlo spiegandogli il processo tecnico che si cela dietro al film. La madre Mitzi (Michelle Williams), pianista per vocazione, lo rassicura promettendogli che «i film sono come i sogni che non dimenticherai mai». Sammy rimane folgorato da quella visione sul grande schermo tanto che deciderà di replicare la sequenza dell’incidente del treno in una sorta di remake casalingo con i suoi modellini dei treni e una piccola cinepresa.

Incoraggiato a coltivare la sua passione dai genitori, Sammy ancora bambino è già un regista amatoriale che sperimenta, taglia la pellicola 8mm e realizza film con amici e familiari. Allo stesso tempo scopre le potenzialità del mezzo cinematografico come manifestazione della propria creatività. Si sviluppa così, in un flusso emotivo profondo e commovente, questo lungo ricordo in movimento che è la storia della sua vita. All’età di 16 anni è attraverso una serie di fotogrammi che Sammy scopre l’intrigo amoroso della madre Mitzi con Benny (Seth Rogen), il migliore amico del padre. Da quel momento, l’equilibrio familiare s’incrina e le complicazioni del matrimonio dei genitori lo segneranno profondamente.

Sam scopre il potere che ha l’arte di guarire e confortare: se dapprima il cinema era mera espressione della meraviglia del quotidiano – si veda la scena in cui Mitzi, illuminata dai fari della macchina, danza di notte come su un set improvvisato (forse un omaggio alla Serpentine Dance di Loïe Füller) – ora diviene invece uno strumento di protezione ed evasione. Il cinema quindi come rifugio e medium incanalatore del dolore, quando le parole non bastano più. Sam diciottenne (interpretato dall’ottimo Gabriel LaBelle) si pone con nuova consapevolezza rispetto al mezzo filmico. Sa di poter manipolare le immagini, e quindi anche la realtà, a proprio piacimento e – in puro stile hollywoodiano – nel filmato per il Ditch Day del 1964 trasforma il bullo della scuola in un eroe, solo per gusto estetico e narrativo. 

Quello di Spielberg rappresenta anche un simbolico viaggio tra i generi cinematografici: c’è la commedia, ma anche – e soprattutto – il western. Dopo il film di De Mille, l’altro film-modello che ha scolpito il suo immaginario è sicuramente L’uomo che uccise Liberty Valance di John Ford. Il western, però, è anche metafora del senso di isolamento e d’inadeguatezza, dei continui spostamenti della sua famiglia, dall’Ohio alla California. The Fabelmans, in tal senso, è anche un viaggio nella storia del cinema, viaggio che parte dal treno, simbolo del cinema delle origini, e che si conclude alle porte della “Fabbrica dei Sogni”, gli Studios hollywoodiani, luogo cruciale dove Sam farà un incontro fondamentale per la costruzione della propria identità registica, tra orizzonti reali e metaforici.

Martina Dell’Utri