C’era una volta in Bhutan, la recensione del film

C'era una volta in Bhutan

Dopo il successo del suo lungometraggio d’esordio, Lunana – Il villaggio alla fine del mondo che, come rappresentante del Bhutan, è riuscito ad entrare nella cinquina dell’Oscar per il miglior film straniero nel 2022, il regista Pawo Choyning Dorji torna a mostrarci questo angolo di mondo con C’era una volta in Bhutan (The Monk and the Gun). Ancora una volta, si viene trasportati negli incantevoli paesaggi di un luogo dal sapore esotico e rurale che, molto facilmente, i nostri occhi di europei potrebbero scambiare per il Nepal oppure per il Tibet: grandi vallate verdeggianti, una popolazione dai tratti somatici tipicamente asiatici e le iconiche toghe rosse dei monaci buddisti che fanno capolino nelle inquadrature.

Forte della vittoria del premio speciale della giuria alla Festa del cinema di Roma 2023, C’era una volta in Bhutan arriva nelle sale italiane grazie alla distribuzione di Officine Ubu con un titolo tradotto meno evocativo dell’originale, ma che soprattutto si rifà a due chiari precedenti cinematografici: C’era una volta in America di Sergio Leone e il più recente C’era una volta a… Hollywood di Quentin Tarantino. Vedendo il film, però, non si capisce bene quali possano essere i motivi di questa scelta che, in ultima analisi, risulta più un tentativo di incuriosire lo spettatore che di fornirgli una chiave interpretativa. La storia raccontata in C’era una volta in Bhutan, infatti, celebra sì un momento di passaggio molto importante per il Bhutan, ma la sua natura di commedia lo distanzia certamente dalle grandi narrazioni ordite nelle due opere di Leone e Tarantino.

È il 2006 e nel Regno del Bhutan, dopo essere arrivati Internet e la televisione, è tempo di abbandonare la monarchia in favore della democrazia (un cambiamento realmente accaduto che ha visto il Bhutan passare dalla monarchia assoluta alla monarchia costituzionale, restando comunque fedeli alla dinastia Wangchuck con l’attuale re Jigme Khesar Namgyal Wangchuck). Sullo sfondo storico di questo mutamento che, ovviamente, prevede un’intensa attività di propaganda rivolta alla popolazione per insegnarle come votare (la linea comica della commedia), si sviluppano due storie fatalmente unite da un antico fucile della Guerra Civile americana. E sarà proprio questo oggetto che riunirà i protagonisti della storia in un rituale di purificazione condotto dal Lama contro tutta la negatività del mondo: la gettata delle fondamenta di uno stupa. Un po’ come per la posa del primo mattone di un edificio, con questo gesto, la comunità riunita cercherà di superare momenti critici e di transizione, ed è in questo episodio che la storia vede anche il suo acme antimilitarista.

In C’era una volta in Bhutan, Pawo Choyning Dorji riesce a mostrare un Paese in bilico tra il mondo rurale – fatto di uno statico equilibrio, e quindi di remissività al cambiamento e tradizioni consolidate nel tempo – e il mondo moderno in fase di occidentalizzazione, ovvero aperto a nuove sfide, ma anche estremamente contraddittorio e conflittuale. Sono pertanto ben evidenti sia l’irruzione della complessità delle società moderne all’interno della mentalità arcaica della popolazione bhutanese sia la posizione del regista, a favore di un processo di modernizzazione che però non perda contatto con le radici culturali e religiose del Paese.

Con questa seconda pellicola, Pawo Choyning Dorji riesce dunque a parlare ancora del Bhutan senza scadere in narrazioni stereotipate o nostalgiche, costruendo una commedia che non scontenta nessuno e, grazie a una componente paesaggistica elevata da una piacevole fotografia, regalando allo spettatore anche qualche notevole inquadratura.

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Matteo Bertassi