Thunderbolts*, la recensione del film Marvel

Thunderbolts*

Continua a deludere la “fase cinque” del Marvel Cinematic Universe, giunta con Thunderbolts* al suo sesto e ultimo capitolo. Alla regia del nuovo titolo Marvel troviamo Jake Schreier (tra gli artefici della serie di successo Lo scontro), ma è risaputo che i prodotti dell’MCU sono, di fatto, le creature di Kevin Feige. Ed è evidente: senza alcuna ricerca stilistica di rilievo, Thunderbolts* è un film privo di personalità, un blockbuster d’intrattenimento senza arte né parte che, al massimo, cerca di guardare al passato (a Captain America: The Winter Soldier, volendo, ma uscendone comunque come una versione depotenziata). Il risultato è un prodotto di consumo effimero, che mostra – e tenta – poco. Eppure è stato lanciato con una campagna marketing in stile A24, chiaramente pensata per strizzare l’occhio al cinefilo medio: un intento che, ovviamente, non trova alcun riflesso nell’immagine a schermo.

Narrativamente, Thunderbolts* riunisce alcune figure di basso profilo della produzione Marvel recente per farne un supergruppo di antieroi. La Vedova Nera Yelena Belova (Florence Pugh), vista in Black Widow e nella serie Hawkeye, si unisce infatti allo pseudo-Captain America John Walker (Wyatt Russell), il villain di The Falcon and the Winter Soldier, e a Spettro (Hannah John-Kamen), direttamente da Ant-Man and the Wasp. Traditi dalla contessa Valentina Allegra de Fontaine (Julia Louis-Dreyfus), i tre uniranno le forze con il padre adottivo di Yelena, il supersoldier Red Guardian (David Harbour), e con il sempiterno soldato d’inverno Bucky Barnes (Sebastian Stan) per fare fronte alla pericolosa minaccia rappresentata dal misterioso Sentry (Lewis Pullman).

Vista la coralità della trama di Thunderbolts*, ci si aspetterebbe una maggiore attenzione rivolta alla dimensione strettamente personale di ciascuno dei membri del nuovo team, specialmente nell’ottica – apertamente dichiarata – di presentare questo gruppo come un contraltare speculare degli Avengers. Guardiamo al Suicide Squad di James Gunn che, di base, prendeva le mosse dalla stessa premessa di Thunderbolts*, facendola propria con gusto e ironia, riconoscendone la natura giocosa. Qui di giocoso, invece, troviamo solamente le innumerevoli battute e gag che timbrano ogni sequenza – come nel caso della fuga del gruppo dalla trappola della de Fontaine – e che riducono il tutto a un action comedy poco ispirato.

Anzi, quando Thunderbolts* cerca di fare propria una dimensione differente, più seria e meno macchiettistica, andando a scavare nei drammi interiori di Yelena e nella duplicità ombrosa di Sentry/Void, finisce purtroppo per ricadere nel cattivo gusto, a partire dalle ombre atomiche di Hiroshima – riferimento esplicito rievocato da Jake Schreier – ridotte a veicolo di mero intrattenimento, sino ad arrivare all’esplorazione diretta delle fragilità sia della protagonista del film sia dell’antagonista. Si tratta di un’indagine che, se da un lato attinge a una presunta profondità, dall’altro lato non può che rimanere ancorata alla superficie, vista la banalità della cornice che la circonda.

Chiariamoci: Thunderbolts*, di per sé, è un film che in un’altra epoca avrebbe potuto anche avere un senso. Lo svolgimento è lineare e mai forzato, ogni tassello è al suo posto (perlomeno nel portare a compimento le proprie premesse fondanti) e le sue incursioni action non sono calcolate male. Ma Thunderbolts* è un film del 2025, e come tale va giudicato, in particolar modo nell’assenza di una tangibile visione per il futuro di una saga multimiliardaria ormai ferma sullo stesso modello di intrattenimento da quasi un ventennio. Siamo lontani da certi disastri (The Marvels, Deadpool & Wolverine), ma non è ancora abbastanza.

Daniele Sacchi