“Wasp” di Andrea Arnold – Recensione

Wasp

Chi ha detto che la maternità addolcisce? La maternità è un istinto: protegge, ma può anche portare alla rovina. Non lascia scampo a nessuno. Può essere la più egoistica e, al tempo stesso, altruistica forma d’amore che esista. La maternità non fa prigionieri: uccide, taglia, ferisce. Punge con la precisione di una vespa. Proprio questa maternità ferina, feroce, è al centro dell’acclamato cortometraggio della regista inglese Andrea Arnold, Wasp. Vincitore del premio Oscar nel 2005 come Miglior cortometraggio, il film di Arnold esplora, con il suo linguaggio cinematografico fatto di lirismo ed empatia, la maternità tossica e la fame d’amore.

Wasp rappresenta un momento cruciale nella carriera di Arnold. Non solo per la vittoria agli Oscar, che la consacra in America, ma soprattutto perché precede la produzione del suo primo lungometraggio: Red Road (2006). Si tratta del momento in cui l’autrice esce dall’ombra, pronta a porsi davanti al grande pubblico come regista di film impegnati. Benché sia solo la sua terza produzione, Wasp conferma lo stile inconfondibile di Andrea Arnold. Fin dal suo esordio con il corto Milk nel 1998, la regista ha sempre dimostrato una predisposizione per l’uso della macchina a mano e per la luce naturale. Merito anche di Robbie Ryan, suo storico collaboratore e direttore della fotografia di fama internazionale (ha lavorato con Ken Loach e Yorgos Lanthimos, solo per citarne alcuni). La regia di Arnold è atta a creare un vero e proprio mood, utile a trasmettere quell’empatia che da sempre è il fil rouge della sua filmografia. Figlia della working class, Arnold riesce a mescolare il realismo sociale tipico dei registi inglesi con una sensibilità poetica tutta personale. Al centro, c’è l’immagine, che guida alla scoperta di uno spazio-tempo del tutto personale, dove la realtà si sublima nella poesia dei piccoli dettagli quotidiani. Ma come si mescolano tutti questi elementi in Wasp?

Wasp

La vicenda vede come protagonista Zoe (Natalie Press), madre single di quattro figli che vive al limite della povertà. Un giorno, la ragazza incontra Dave (Danny Dyer), un suo ex fidanzato in congedo dall’esercito. Zoe decide di prendersi una pausa dalla sua vita e accetta di uscire con lui. Tuttavia, non avendo nessuno che badi ai bambini – e temendo che, scoprendo della loro esistenza, l’uomo la rifiuti – è costretta a portarli con sé, lasciandoli ad aspettare tutta la sera nel parcheggio davanti al locale dell’appuntamento. Ma tutto sembra crollare quando Kai, il figlio più piccolo, viene attaccato da una vespa.

Con un’immediatezza spontanea, Andrea Arnold ci porta nel mondo degli ultimi che lottano per sopravvivere. Tra le case popolari di Dartford (città natale della regista), con i suoi balconcini e panni stesi ad asciugare, la povertà si presenta con tutta la sua ferocia. Un elemento che ritornerà prepotentemente in Fish Tank (2009), ma soprattutto in American Honey (2016), un Nomadland antitempo nel cuore di un’America sconosciuta e disillusa. In questo scenario che poco lascia ai sogni e alla speranza, la famiglia di Zoe assume i tratti di un vero e proprio branco: un corpo organico le cui membra si muovono in maniera mimetica, quasi all’unisono. Esattamente come i cuccioli, le bambine seguono la madre in ogni suo movimento. È interessante notare come i gesti e il linguaggio dei corpi sono usati per comunicare la sete di amore. In particolare, i gesti possiedono una vena di aggressività: dall’accarezzare al tirare i capelli, tutto rimanda a un amore feroce, animalesco, che ferisce per proteggere. Calibrando i movimenti e gli sguardi, Andrea Arnold rimanda a un vissuto interiore profondo e inconscio, non governato dalle leggi sociali: un sentimento esente dai pregiudizi, che erompe con la forza di un pianto liberatorio.

Margherita Montali