Meccanismi invisibili di sorveglianza, controllo e manipolazione esercitano una costante pressione sul tessuto sociale contemporaneo. La casa, il lavoro, persino la relazione di coppia non sono più luoghi di intimità o autenticità, ma teatri in cui si recita sotto uno sguardo costante, che sia quello delle telecamere, degli algoritmi dei social o, più insidiosamente, del puro rapporto con l’Altro. In questo contesto, le logiche e le retoriche della sorveglianza non sono soltanto uno strumento tecnologico, ma una grammatica psicologica e relazionale, un filtro attraverso cui il Reale viene codificato, piegato, distorto. La paura del tradimento, l’ossessione per la trasparenza, l’ansia del controllo diventano sintomi profondi di una società dove tutto è visibile ma niente è veramente conosciuto.
Black Bag, l’ultimo film di Steven Soderbergh, cattura perfettamente questo clima. Dopo il liminale Presence, Soderbergh torna in territori a lui più consoni con uno spy thriller che racconta la storia di George (un glaciale Michael Fassbender), un agente dell’intelligence britannica costretto a indagare su una fuga di informazioni riservate. Per il suo stupore, tra le cinque figure sospettate di doppiogiochismo, una è la sua moglie e collega Kathryn, interpretata da Cate Blanchett. Durante una cena – un setting solo all’apparenza intimo e “riservato” – George invita le potenziali talpe per metterle alla prova: non con armi o interrogatori, ma con un sofisticato gioco psicologico che, nel corso del film, tra depistaggi, false piste e inaspettate rivelazioni, lo avvicinerà piano piano alla verità.
Black Bag è meno un film d’azione e più una partita a scacchi, un thriller mentale dove ogni personaggio è una maschera, ogni parola (ma anche ogni silenzio) è una potenziale trappola. Tutto è scrutinato nell’indagine di Soderbergh sul presente, nel tentativo di smascherare una minaccia non tanto esterna quanto interna, invisibile, quotidiana. La psichiatra Zoe (Naomie Harris), la specialista di immagini satellitari Clarissa (Marisa Abela), i case officer Freddie (Tom Burke) e James (Regé-Jean Page): agli occhi di George sono pedine da manovrare, enigmi da decifrare, pesci ignari in attesa di abboccare al suo amo. Sontuose, da questo punto di vista, le sequenze in barca che mostrano l’uomo pescare assorto nei suoi pensieri, ulteriore indice di un animo paziente e calcolatore, seppur freddo (ma innamorato).
Sono proprio i dubbi circa il ruolo della moglie di George, l’ambigua Kathryn, a spostare l’attenzione dall’intrigo geopolitico, che nel film è cornice e sfondo (macguffin dell’intreccio è un malware potenzialmente molto pericoloso dal nome Severus), all’analisi di qualcosa di più personale. La sfera dei rapporti intersoggettivi assurge a terreno di scontro privilegiato di una guerra delle informazioni che viene astratta dalle sue implicazioni politiche e belliche per applicarla a un contesto privato. In questo, nonostante la discutibile – e a tratti abbagliante – direzione della fotografia (il regista statunitense è conosciuto per le sue scelte spesso eccentriche a tal proposito, vedasi i cromatismi di Traffic), Soderbergh lavora perlopiù di montaggio con lo scopo di mettere in luce proprio quelle dinamiche a volte esplicite a volte implicite – gesti, parole, sguardi – che disvelano la nostra natura relazionale, raggiugendo il climax nella meravigliosa sequenza del poligrafo che racchiude tutto il senso complessivo del film. Un thriller di mestiere, insomma, di un autore prolifico e poliedrico che non smette mai di stupire.
Daniele Sacchi