Confrontarsi con la serialità, oggi, significa fare a patti con le sue dinamiche produttive. L’epoca della serialità prestige in 12-13 episodi, o delle grandi produzioni network da 24 episodi, è finita da un pezzo. HBO, cosi come i grandi colossi dello streaming (pensiamo a Netflix, ad esempio, in particolare con la sua serie di punta Stranger Things), già dalle ultime due stagioni de Il trono di spade ha abbracciato con vigore l’era dei prodotti maxi budget a rilascio dilazionato, portando lo spettatore, di norma, ad attese di due anni tra una stagione e l’altra. The Last of Us, adattamento HBO dell’omonima opera videoludica targata Naughty Dog, rientra (a malincuore) in questa serie di prodotti che vedono la propria vita allungarsi artificialmente in virtù delle nuove esigenze produttive del mondo seriale, vedendone la propria eco inevitabilmente ridimensionata.
Questo perché la seconda stagione di The Last of Us, arrivata a due anni di distanza dalla prima (qui la nostra recensione e qui un approfondimento) e da poco giunta alla sua conclusione dopo la messa in onda dei suoi 7 episodi, si trova sospesa su un ponte “formale” abbastanza singolare. L’ultima stagione di The Last of Us, lo ricordiamo, consiste nell’adattamento della prima metà del videogioco The Last of Us Part II. Già di suo, l’idea strutturale dell’opera di riferimento presupponeva un forte taglio, una cesura tra la sua prima e la sua seconda metà che mira a un preciso sovvertimento nella percezione ludico-spettatoriale e nei processi di identificazione con l’immagine. Replicare questo esatto tipo di dinamica, nella traslazione da un medium all’altro, avrebbe probabilmente condotto a uno slittamento depotenziato nel rapporto tra lo spettatore e l’opera, vista la necessità di dover attendere altri due anni (si immagina) per assistere alla sua prosecuzione. Un effetto shock dilazionato che, molto probabilmente, non avrebbe suscitato la stessa “emozione” sovversiva.
Craig Mazin, lo showrunner della serie (in stretta collaborazione con gli autori del videogioco Neil Druckmann e Halley Gross), ha quindi optato per una via di mezzo. Replicare la struttura del videogioco, ma con delle alterazioni significative per smussare quel processo e per renderlo più facile, più semplice, più comprensibile. Si tratta, insomma, di un discorso simile rispetto a quanto fatto qualche anno fa per Dune – Parte uno di Denis Villeneuve, un film monco che anteponeva lo “spiegare” il proprio universo a ogni altra necessità. Con la differenza che, nell’ottica di un prodotto dalla natura seriale come The Last of Us (e quindi maggiormente disteso nel suo runtime e nelle sue possibilità), in questo caso si può fare qualche concessione in più. Rimane, tuttavia, un discorso in divenire che coinvolge tutta una serie di dinamiche contemporanee (non solo seriali o cinematografiche) che ormai tendono verso la semplificazione eccessiva, o al contrario verso una presunta “espansione” (tematica, di character study, o di esposizione di background) che, con un effetto opposto, finisce in realtà a contrarre, ridurre, e di nuovo semplificare.
Abbracciata questa consapevolezza di forma, importante certo – e tanto discussa tra i fan online, come se la fedeltà al testo originale nel cinema e nella serialità contasse realmente qualcosa – ma comunque in continuità con il panorama mediale contemporaneo, la seconda stagione di The Last of Us riconferma il valore di quanto proposto nella sua prima stagione, e migliora in tutto. Una delle poche criticità precedenti, ossia la progressiva scomparsa degli infetti negli ultimi episodi (e quindi un abbassamento della tensione generale), è stata completamente eliminata in questa prosecuzione, mantenendo comunque centrale l’elemento umano, a partire dai primi episodi ambientati a Jackson sino ad arrivare all’introduzione delle due fazioni di Seattle (luogo centrale di questa stagione), i Serafiti e i WLF.
Pedro Pascal e Bella Ramsey riconfermano la loro eccezionale prova attoriale vista nella prima stagione con una altrettanto emotiva, sublimata in particolar modo nel sesto episodio interamente dedicato ai personaggi di Joel e Ellie. Unica mancanza significativa nella figura di Ellie interpretata da Ramsay è una certa gravitas e peso esistenziale, presenti nella controparte videoludica e che qui invece latitano, elementi che non avrebbero stonato nell’esplorazione del suo trauma e nel “certificare” con maggior vigore la sua sete di vendetta. Il bilanciamento perfetto Mazin & co. lo trovano invece nella new entry Dina, interpretata da Isabela Merced (l’abbiamo già vista in Alien: Romulus), vero nodo sinergico attorno al quale ruotano la maggior parte degli episodi che vedono Ellie e Dina come protagoniste. Di nuovo, come nella prima stagione, a risplendere da un punto di vista attoriale sono anche – e soprattutto – le interpretazioni dei numerosi guest, come nel caso di Catherine O’Hara, di Jeffrey Wright e di Joe Pantoliano.
Hybris, violenza ciclica, paternità. Ritornano anche i punti fondamentali della prima stagione, qui riletti però a partite da un trauma esplosivo che prorompe con tutto il suo dolore e tutta la sua sofferenza alla fine del secondo episodio. È solo un punto di partenza, però, che contiene già i germi del cambio di prospettiva che subentrerà, inevitabile, nella terza stagione. Su questo, la serie già accenna qualcosa all’inizio, “spiega” (e lo fa forse troppo), aggiungendo quando forse si sarebbe dovuto lavorare per sottrazione. Il messaggio, però, per chi vuole ascoltare, filtra lo stesso, ed è Kaitlyn Dever, nei panni di Abby, a farcelo arrivare, con un’interpretazione viscerale che apre le porte a quello che verrà. Perché se la seconda stagione di The Last of Us è, a modo suo, inconclusa, la maestria (e la crudezza del Reale che la accompagna) sulla quale si posa è encomiabile. Prestige tv in forma “ridotta”, ma pur sempre prestige tv.
Daniele Sacchi