The Last of Us, la recensione della prima stagione

The Last of Us

Sono ormai trascorsi diversi anni dal Silent Hill di Christophe Gans, per lungo tempo considerato come l’unico adattamento videoludico in live action in grado di catturare (almeno parzialmente) lo spirito e l’essenza del materiale di riferimento, l’omonima saga survival horror sviluppata da Konami. Trasporre le qualità di un medium attivo come il videogioco in un’esperienza di visione passiva è un’operazione complicata e rischiosa, sia da un punto di vista strutturale, sia per quanto riguarda la conseguente percezione spettatoriale, specialmente se si considerano le pressanti esigenze di un pubblico poco incline ad accettare eventuali rimodulazioni del loro gioco preferito. Oggi, però, possiamo finalmente dire di avere un nuovo caposaldo con il quale tutti dovranno necessariamente confrontarsi in futuro: The Last of Us, la nuova serie HBO trasmessa in Italia da Sky, è infatti la messa in scena di un equilibrio perfetto tra la necessità di voler rispettare il punto di riferimento originale – il capolavoro videoludico del 2013 targato Naughty Dog – con le dinamiche proprie della serialità televisiva contemporanea.

Certo, il videogioco diretto da Neil Druckmann e Bruce Straley conteneva già in potenza una consistente materia cinematografica, non solo per il fotorealismo (ancora più marcato nel sequel The Last of Us Part II e nel recente remake del primo capitolo per PS5) ma anche nei toni di una narrazione matura che, oltre al gameplay, sfida a più riprese il giocatore sul piano emotivo e morale. La serie tv, guidata dallo showrunner Craig Mazin (già al timone di Chernobyl) e dallo stesso Druckmann, riprende fedelmente le peculiarità che rendevano grande il titolo videoludico, ma allo stesso tempo attua un passaggio ulteriore. The Last of Us non è “solamente” un degno adattamento, ma anche un’ottima serie in tutto e per tutto, con una forte identità nonostante un setting già visto e sulla carta poco originale.

Il punto di partenza di The Last of Us è lo scoppio di una pandemia avvenuta nel 2003 a causa della diffusione del Cordyceps, un fungo parassita realmente esistente che, a causa di una mutazione, riesce a prendere il controllo degli esseri umani tramutandoli in creature irrazionali ed estremamente aggressive. Vent’anni dopo, in un’America post-apocalittica piegata dall’infezione e da un governo nazifascista che prova a stento a tenere in piedi la società, il contrabbandiere Joel Miller (Pedro Pascal) viene incaricato dall’insurrezionalista Marlene (Merle Dandridge) di trasportare la giovane Ellie (Bella Ramsey) in un luogo sicuro dove la milizia ribelle delle Luci (le Fireflies, in lingua originale) potrà prendersene cura. La missione è di immensa importanza: Ellie, infatti, è immune al Cordyceps e potrebbe essere la chiave per lo sviluppo di un eventuale vaccino.

Nonostante lo scenario sia già stato ampiamente trattato nell’immaginario cinematografico e seriale, dalla pletora di zombie movies degli ultimi vent’anni sino ad arrivare alle 11 (!) stagioni di The Walking Dead (senza contare i relativi spin-off), The Last of Us dimostra immediatamente di voler proporre allo spettatore un punto di vista profondamente diverso sulla questione infetti, mettendo in chiaro il tono della narrazione già a partire dallo struggente prologo ambientato nel 2003. La serie di Mazin e Druckmann è, prima di tutto, un’intensa esplorazione dei limiti più estremi ai quali l’essere umano può essere condotto, nonché un’indagine sull’elaborazione dei propri traumi personali (o sull’impossibilità di trovare pace e conciliazione). Non stupisce, in tal senso, come The Last of Us finisca per marginalizzare progressivamente il contesto pandemico, riducendo mano a mano le apparizioni degli infetti – sebbene ci si potesse attendere qualche sequenza in più a loro dedicata, in particolare negli ultimi episodi – per focalizzarsi sugli aspetti più intimi e umani della vicenda.

Tra i punti più alti della stagione spiccano così il terzo episodio Long, Long Time, dedicato ai comprimari Bill (Nick Offerman) e Frank (Murray Bartlett), e i due episodi dedicati quasi interamente a Ellie, il settimo Left Behind – adattamento dell’omonima espansione del gioco – e l’ottavo When We Are in Need. Il terzo episodio, in particolare, sembra richiamare direttamente le digressioni tipiche di The Leftovers di Damon Lindelof e Tom Perrotta, un’altra serie HBO meravigliosa che, come The Last of Us, ricorre ad un evento tragico globale come trait d’union connettivo per esaminare le reazioni viscerali di un’umanità privata di ogni cosa. The Last of Us vive di fatto – e risplende – attraverso momenti di grande emotività dove, in pochissimo tempo, si riesce ad entrare in contatto con persone che appaiono dinanzi ai nostri sguardi come estremamente reali, di interi mondi privati con i quali possiamo facilmente empatizzare. Questo accade con Joel ed Ellie, i protagonisti della vicenda, ma anche con figure che, pur con meno screentime, riescono a toccare tutte le corde giuste perché le loro azioni restino ben impresse nella memoria degli spettatori.

Persino sul piano tecnico, il lavoro svolto in The Last of Us è encomiabile. La colonna sonora è curata magistralmente da Gustavo Santaolalla come nella controparte videoludica, mentre sul piano registico vanno assolutamente segnalati il sesto episodio diretto da Jasmila Žbanić (autrice del bellissimo Quo Vadis, Aida?), con l’insediamento di Jackson ricreato a partire dai ricordi della Sarajevo post-assedio, e i due crudissimi episodi conclusivi diretti da Ali Abbasi, in grado di sottolineare alla perfezione l’abiezione del personaggio di David (Scott Shepherd) e la brutalità action del climax conclusivo. In tutto ciò, le sequenze iconiche del videogioco sono per la maggior parte ricreate fedelmente e parola per parola, con un’unica grande eccezione nella chiusura del secondo episodio, perfettamente in linea però con le nuove dinamiche dell’infezione proposte dalla serie. La prima stagione di The Last of Us accontenta dunque tutti, permettendo allo spettatore di assimilare (o di riassorbire, nel caso dei fan del videogioco) quelli che sono gli elementi e le suggestioni principali del tessuto narrativo elaborato da Druckmann, preparando per bene il terreno agli urti ancora più vigorosi che arriveranno in futuro.

Daniele Sacchi