Angst di Gerald Kargl, recensione e analisi

Angst

Il sovversivo Angst (1983) di Gerald Kargl è un ritratto cupo e terrificante del perverso, del morboso, dei punti più bassi che l’essere umano può toccare. Ispirato alla vita e agli omicidi del serial killer Werner Kniesek, il film del regista austriaco – l’unico girato in carriera – è diventato nel tempo opera di culto, tanto da risultare fondamentale per Gaspar Noé nella sua formazione cinematografica. Gerald Kargl costruisce, insieme al ben più conosciuto autore, editor e direttore della fotografia polacco Zbigniew Rybczyński, un percorso caustico, orrorifico e brutale che non fa nessuno sconto alla sensibilità spettatoriale, istituendosi come un pungente commentario sull’abiezione e sulla disumanità.

In Angst, un uomo (interpretato magistralmente da Erwin Leder) racconta inizialmente in voiceover il suo passato, i suoi crimini e la prigionia, dando sfogo al suo ripugnante mondo interiore, fatto di sadismo e di completa noncuranza per l’alterità. Dopo aver trascorso in carcere gli ultimi dieci anni della sua vita per l’omicidio di un’anziana signora, l’uomo esce di prigione pianificando di dare nuovamente libero sfogo alle sue pulsioni di morte, denunciando nel suo caso l’inevitabile fallimento della correzione carceraria.

Lo psicopatico, dopo aver cercato senza successo di assassinare una tassista, si introduce dunque in un appartamento, torturando e uccidendo uno dopo l’altro i suoi abitanti (una madre e i due figli) senza mai mostrare alcun rimorso e, anzi, dimostrandosi incline nel voler continuare nei giorni successivi la sua irrefrenabile follia omicida.

Angst

Kargl e Rybczyński delineano un’esperienza provocatoria e lancinante, fatta di distorsioni dell’immagine e di primi piani ossessivi, con la camera a mano che segue passo dopo passo le efferate azioni dell’assassino, portando quindi lo spettatore a stretto contatto con la sua psiche corrotta e con la sua ignobile visione del mondo. Grazie anche all’enfasi posta dai claustrofobici paesaggi sonori partoriti dal pioniere dell’elettronica anni ‘70 Klaus Schulze (ex Ash Ra Tempel e Tangerine Dream), Angst si presenta come un’effettiva traduzione cinematografica del degrado umano, raccontato con brutale realismo e fervore espressivo, specialmente nella messa in scena dell’omicidio della famiglia, raggiungendo il suo climax nell’estasi allucinatoria e quasi vampiresca del protagonista esibita a più riprese nell’assassinio e nel vilipendio del cadavere di una delle sue vittime.

A rendere il tutto ancora più macabro, però, non è solamente la spietatezza e la crudeltà visiva costantemente ricercata nel film, ma anche la giustapposizione di questi elementi con la pacata lucidità dei pensieri del serial killer, in grado di enunciare le sue fantasie perverse come se costituissero il punto di arrivo definitivo per la sua persona, denunciando ulteriormente il suo stato mentale profondamente deviato.

In tal senso, una delle sequenze più sconvolgenti della pellicola non può che essere una di quelle più apparentemente “normali”: la mattina dopo l’assassinio, il serial killer si cambia lentamente i vestiti macchiati di sangue, preparandosi per uscire alla ricerca di nuove vittime. Nel movimento successivo, e dunque nel passaggio dallo spazio privato dell’abitazione della famiglia assassinata al luogo pubblico della tavola calda, l’ossessione dell’uomo si sposta da un godimento morboso e rigorosamente personale ad una messa in scena voyeuristica e marcatamente esibizionista, estendendo ulteriormente e rendendo chiaramente manifeste le aberranti frontiere della rovina umana.

Daniele Sacchi