Apollo 10 e mezzo, la recensione del nuovo film di animazione di Richard Linklater

Apollo 10 e mezzo

Ritorna al rotoscope dopo quasi vent’anni Richard Linklater con Apollo 10 e mezzo. Il nuovo lungometraggio del regista americano, distribuito su Netflix, sembra quasi rappresentare una summa del suo stile, un riassunto che accoglie elementi provenienti da una buona fetta della sua filmografia. Quest’ultimo tratto sembra accomunare tanti dei film prodotti ad hoc per il colosso dello streaming realizzati dalle grandi firme del cinema e della TV, tuttavia qui ci si trova davanti a un risultato decisamente buono, con una spinta molto più originale rispetto ad altri esperimenti simili.

Il film segue, nella vitalità degli Stati Uniti durante il boom economico, il piccolo Stan (Milo Coy) e la sua famiglia in attesa dell’evento del secolo: l’allunaggio. In questo fervore, nella preoccupazione di non riuscire a rispettare le scadenze, una squadra segreta della NASA recluta proprio Stan per un test segreto del lancio, la missione Apollo 10 e mezzo. Negli anni della guerra fredda e del Vietnam si assiste così all’evoluzione, o meglio alla nascita, della middle class statunitense e l’effetto di questa sullo sviluppo culturale e dell’intrattenimento. Per farlo, viene scelta la prospettiva dell’infanzia, come d’altronde Linklater aveva già fatto nel suo School of Rock (2003), e non sembra in questo senso casuale la scelta di Jack Black come voce narrante. Apollo 10 e mezzo è un film che può tranquillamente definirsi come un coming of age di un’intera generazione, quella dei boomer, risultando in questo senso molto interessante nel mostrare come quel gruppo di persone che ora rappresentano la conservatività sia stato al centro di cambiamenti culturali che non hanno ancora perso la loro forza e importanza all’interno della società.

Apollo 10 e mezzo

Un po’ per la prospettiva infantile, un po’ per la volontà di realizzare un prodotto nostalgico tanto visivamente quanto narrativamente, Apollo 10 e mezzo omette diversi dettagli politici e sociali scomodi degli USA di quegli anni (pur accennandoli qua e là) nel periodo in cui il cinema americano sembra convergere univocamente sul politically correct e proprio nella piattaforma baluardo della rappresentatività. Ma, in fondo, questa stonatura non appare necessariamente come un elemento negativo: può, ad esempio, rappresentare la volontà di un regista di non voler assecondare il proprio intento alle tendenze del mercato dell’intrattenimento, evitando di raccontare una storia che abbia come unico obiettivo la denuncia sociale privandosi degli elementi artistici. Al contrario, Linklater resta un maestro del cinema americano: il film scorre benissimo trasportando lo spettatore in uno spazio che risulta nostalgico anche per chi non lo ha vissuto, dimostrandosi celebrativo di un’epoca molto particolare e dalla storia spinosa, i cui frutti, però, nel bene e nel male, li ritroviamo alla base della contemporaneità.

Per la terza volta nella carriera del regista, dopo Waking Life (2001) e A Scanner Darkly (2006), il rotoscope si presenta con una sfumatura nuova. La particolare tecnica di animazione lega a sé tutti gli elementi del film, regalando alla narrazione uno stile fumettistico e sottolineando, così, ancor di più la sua preponderante spinta nostalgica. Il pregio e il difetto in tutto ciò risiede nella volontà di aderire eccessivamente alla tendenza del feel good movie per cui, in ultima analisi, ci si trova davanti un film altamente godibile da un regista da cui forse ci aspettava qualcosina in più.

Alberto Militello