“Flee” di Jonas Poher Rasmussen – Recensione

Flee

Gli ultimi sviluppi riguardanti l’Ucraina e la Russia riportano a galla ricordi piuttosto recenti relativi al Medio Oriente, in particolare alla fuga della popolazione afghana a seguito della guerra civile. Ed è proprio la questione della fuga ad essere al centro di Flee, il documentario animato di Jonas Poher Rasmussen che arriva in sala con un tempismo tristemente azzeccato. La peculiare natura del film gli è valsa ben tre candidature agli Academy Awards: miglior lungometraggio animato, miglior documentario e miglior film internazionale. Questo insolito tris è lo specchio della grande stratificazione di generi e di linguaggi che il film racchiude in sé, un’opera forse non eccelsa, ma quanto mai necessaria.

Si comincia dall’infanzia: sdraiato sul lettino, guardando dritto in camera, Amin inizia a raccontare la sua vita, dalla giovanissima età fino alla brillante carriera accademica, interamente definita e appesantita dal fardello della fuga. Ogni esperienza della vita del protagonista vi è direttamente o indirettamente legata, che sia un particolare della sua adolescenza passata intrappolato nella Russia corrotta o un momento felice della sua vita da adulto, ammorbato dal senso di colpa per tutto ciò che ha dovuto lasciarsi alle spalle. Anche se un semplice disegno, il volto di Amin riesce a tradire il profondo dolore e l’amarezza che permeano il suo animo, frutto di una vita costantemente passata alla ricerca di un luogo sicuro.

Flee

Jonas Poher Rasmussen prende le mosse da una serie di interviste rilasciate proprio da Amin, una persona che resta avvolta nell’ignoto, e le traduce dunque nel linguaggio dell’animazione. Quest’ultima svolge un ruolo cruciale sotto diversi aspetti, rivelandosi una scelta azzeccatissima. In primo luogo permette il rispetto dei soggetti trattati, ancora perseguibili e che meritano la serenità dell’anonimato, in secondo luogo, l’animazione ha il pregio di universalizzare i concetti e renderli penetranti. La storia di Amin è la storia di tantissime persone e un’immagine immediatamente decifrabile diventa facile anche da comprendere e memorizzare.

Mentre le parole di Amin scorrono pacate e timide in sottofondo, le immagini di Flee riescono a trasmettere il dolore e il tormento che racchiudono, rimanendo realistiche e schiette seppur addolcite dal disegno e dai colori tenui. Siamo tuttavia lontani dagli slanci poetici di Valzer con Bashir (Folman, 2008) o all’ironia di Persepolis (Paronnaud e Satrapi, 2007), nonostante la vicinanza nel sottotesto politico respirabile dall’operazione complessiva portata avanti in Flee. Il tratto più interessante del film resta quindi la grande delicatezza con cui la tragedia della fuga viene narrata, utilizzando l’enorme potere didattico che solo l’animazione possiede, trasformando una semplice confessione al microfono in una vicenda che tende all’universale, coinvolgendo tutti. Flee non è un prodotto di intrattenimento e non è nemmeno un film alla ricerca di un qualche traguardo artistico, ma tocca uno dei nervi scoperti della società moderna, portando dolcemente lo sguardo a qualcosa che quotidianamente si rischia spesso di non vedere.

Alberto Militello