Food, recensione e analisi del corto surreale di Jan Švankmajer

Food

Tre segmenti dedicati al cibo per fornire un commento sull’ingordigia sociale, tre movimenti sull’abbuffarsi e sul divorare che sono anche metafora e riflesso dei meccanismi del Reale. Food di Jan Švankmajer, realizzato nel 1992 ma concepito ben vent’anni prima, è un buon esempio dell’eclettismo del regista ceco, capace di coniugare frivolezza e divertissement con l’impegno sociale e artistico.

Distante dallo sperimentalismo forsennato di Possibilità di dialogo, Food è comunque perfettamente in linea con lo spirito dei cortometraggi in stop-motion di Švankmajer, qui impegnato ad animare oggetti, cibo e persone in un perfetto mix di claymation e pixilation. Le tre parti che compongono Food sono dedicate alla colazione, al pranzo e alla cena. I pasti della giornata vengono però rimodulati da Švankmajer alla ricerca di specifiche frontiere espressive, sia nel rapporto stretto con l’immagine cinematografica sia nell’effettiva produzione del senso.

Da un lato, Food è una continua sorpresa nella sua messa in scena imprevedibile ed esagitata, nonché una chiara espressione della bontà artistica del regista nel voler comunque evitare di ridurre il suo lavoro al “messaggio” che dovrebbe veicolare, evidenziando specialmente la sua attitudine pratica e giocosa (una caratteristica fondante anche di un’opera come Punch and Judy, per citare un altro suo corto). Parallelamente, però, Food trasmette anche altro: l’insaziabilità dell’essente, la meccanicità e la ripetizione, l’auto-annichilimento.

Muovendosi da un ceto all’altro man mano che i pasti della giornata vengono consumati, Švankmajer ricerca un progressivo disvelamento della sovrastruttura che permea i nostri orizzonti sociali, con la struttura economica sottintesa che funge da ente ultimo e definitore. Da un certo punto di vista, Food supera però – nonostante ne affermi l’indiscutibile presenza – la necessità di sottolineare eccessivamente quest’ultimo punto riportando ogni singolo individuo alla matrice sovrastante del potere, capovolgendo operativamente ogni ruolo man mano che, portata dopo portata, la frenesia macabra e granguignolesca con il quale i commensali si cibano dell’Altro e di loro stessi.

Tutto è cibo, tutto è consumo. Nel segmento dedicato alla colazione, basta qualche moneta e una serie di istruzioni invasive per rendere l’Altro un servitore (o, ancora peggio, un effettivo servizio) e, in un movimento speculare, trasformarsi a propria volta in servitori. La dinamica servo/padrone è un ciclo irrefrenabile e forse vacuo, lo testimoniano d’altronde gli altri commensali in fila, pronti per diventare anch’essi servi e padroni. Durante il pranzo, Švankmajer trasforma due clienti del ristorante in divoratori di oggetti tale è la loro fame, una fame però insaziabile che non potrà che rendere cibo una delle due figure, la più debole e assoggettata, nel fuoricampo.

Grazie all’utilizzo della tecnica di animazione a passo uno, Jan Švankmajer distorce continuamente e ad intermittenza il corpo umano, il cibo e le posate, sottolineando come tutto sia soggetto a corruzione e mercificazione in un processo che non prevede alcuna moralità o ritorno. Durante la cena, quando il cibo non è più abbastanza, ormai giunti al culmine dell’abiezione umana, resta un’unica opzione: il cannibalismo del proprio corpo. Questa volta, il regista ceco non ricorre al fuoricampo ma ci mostra direttamente diverse persone nell’atto di cibarsi delle loro mani, gambe, seni. Un uomo, però, inforchettando i propri genitali, sente il dovere di coprirli, non permettendo alla macchina da presa di riprendere il proprio feticcio autocannibalistico: persino nella più totale libidine repulsiva ed incontrollata, l’essere umano sente il bisogno di affermare il suo presunto – ed ipocrita – senso del pudore.

Daniele Sacchi