“Gone Girl – L’amore bugiardo” di David Fincher – Recensione

Gone Girl

È diventato ormai raro individuare degli adattamenti cinematografici che si dimostrino in grado di restituire le stesse sensazioni suscitate dalle loro fonti letterarie o da altri simili materiali di riferimento. Nel caso di Gone Girl – L’amore bugiardo ci troviamo fortunatamente di fronte a uno di quei casi. Con la sua opera, realizzata nel 2014, David Fincher riesce a riprendere perfettamente l’aura di tensione, smarrimento e di disturbo propria del romanzo di Gillian Flynn, che ha peraltro curato anche la sceneggiatura del film stesso. Sebbene quest’ultima eventualità non sia sempre garanzia di buona qualità (basti vedere il disastro cinematografico che Stephen King ha fatto del suo Cell, per citarne uno), in Gone Girl il passaggio da carta stampata a immagine filmica è risultato estremamente soddisfacente.

Così, il Nick Dunne di Ben Affleck appare come esattamente delineato nelle pagine del romanzo della Flynn. L’attore statunitense, che di suo non è mai stato particolarmente espressivo nei suoi ruoli, si dimostra sorprendentemente brillante nel sottolineare l’apatia di Nick, il suo essere travolto dai fatti, la sua incapacità di rispondere adeguatamente all’impatto degli eventi che lo riguardano direttamente. La moglie Amy, interpretata da una superba Rosamund Pike, è scomparsa e tutti gli indizi sembrano condurre ad un coinvolgimento diretto di Nick. Come in ogni thriller degno di tal nome, l’intreccio è in realtà molto più complesso di quello che sembrerebbe inizialmente presupporre, ricco di plot twists e di cambi di registro narrativo che tuttavia non alterano mai significativamente la resa stilistica dell’opera, perennemente tesa a trasmettere allo spettatore un perturbante senso claustrofobico di ansia e di angoscia.

Ad amplificare questa peculiarità fondante di Gone Girl vi sono diversi elementi. In primo luogo, la colonna sonora di Trent Reznor e di Atticus Ross, alla terza collaborazione con Fincher dopo The Social Network (2010) e Millennium – Uomini che odiano le donne (2011), offre un grande contributo al regista statunitense nell’orchestrare delle architetture sonore che si muovono di pari passo con ciò che il film vuole di volta in volta esprimere. Alternando brani ambient apparentemente calmi e spesso in contrasto con la precarietà delle situazioni rappresentate con sonorità industriali e sperimentali feroci e taglienti (come riscontrabile ad esempio nel climax dell’opera), il commento sonoro elaborato da Reznor e da Ross non si dà mai come protagonista ma è sempre presente a corroborare con i suoi paesaggi sonori l’immagine cinematografica, contribuendo ad arricchirla perennemente di senso.

Gone Girl

In Gone Girl inoltre, la palette e il tono dei colori adottati dal direttore della fotografia Jeff Cronenweth vengono applicati sull’immagine cinematografica attraverso dei filtri particolari per cercare di dare al film una precisa espressività cromatica, una caratteristica che nasconde dei tratti di puro storytelling nel suo tentativo specifico di fondere un aspetto strettamente tecnico all’esigenza narrativa di mostrare allo spettatore le differenti condizioni psicologiche dei personaggi rappresentati. L’idea di cinema che Fincher esprime sembra dunque quasi espressionistica, ed è un’idea che vede nel ricorso al digitale un mezzo efficace per migliorare il substrato narrativo e tematico della sua opera, alterando operativamente la percezione spettatoriale nella sua ricezione dell’immagine stessa.

Nel raccogliere sotto la sua regia questa grande mole di elementi, David Fincher riesce dunque con il suo film ad organizzare attraverso un impianto narrativo solido un ottimo intrigo che, in virtù della sua direzione stilistica direttamente sottoposta ad esso, si presta come un’analisi lucida sulle tensioni di una relazione che fa del controllo la sua caratteristica fondante, senza tralasciare allo stesso tempo la messa in atto di una critica neanche tanto sottile alle modalità attraverso le quali le tragedie private vengono spesso ridotte a drammi piegati alle discutibili esigenze delle dinamiche proprie della televisione del dolore. Una storia di finzione dunque che, come spesso accade grazie alle proprietà del medium cinematografico, riesce a insegnarci qualcosa di più sul nostro mondo.

Daniele Sacchi