Il pataffio, la recensione del film di Francesco Lagi

Il pataffio

Un gruppo sgangherato di soldati, un signorotto avido e pieno di sé, un feudo diroccato e alcuni villani affamati. Sono gli elementi principali de Il pataffio di Francesco Lagi, adattamento dell’omonimo romanzo di Luigi Malerba che dalla satira sociale alla comicità grottesca, dai giochi linguistici alla giullarata, si presenta come un egregio tributo al testo di riferimento, offrendo anche diversi spunti di riflessione sullo stato della comicità e del cinema italiani, pur risultando in ogni modo in un’opera esilarante e di grande intrattenimento.

Ciò che colpisce immediatamente de Il pataffio è l’uso della lingua, in particolare il miscuglio di dialetti, il latino maccheronico e i flussi di parole pasticciati e volgari: tre caratteristiche che hanno sempre contraddistinto la scrittura di Malerba, tanto in prosa che nella scrittura per il cinema. Questo uso del linguaggio, ovviamente, non si limita a rendere omaggio allo stile dell’autore, ma costituisce l’ingrediente principale di un’opera divertente, acuta, ma allo stesso tempo volgare e grottesca, riaffermando il filone del comico medievale come vincente, molti anni dopo quelle opere che lo hanno reso grande nel mondo (da Mel Brooks ai Monty Python a Fantozzi).

Un secondo elemento di grande spicco del film risiede proprio in quella sovversione di un tòpos, quello del medioevo, a cui solitamente – sia nel cinema che nella letteratura – vengono attribuiti toni romanzeschi o fiabeschi. Qui siamo ben lontani da tutto ciò, tra preti codardi e dissacranti, soldati ottusi e umorismo nero. A tutto ciò viene affiancata una satira dal gusto boccaccesco, ma che continua ad essere efficace perché amara e veritiera, che vede i potenti come goffi e ignobili che la fanno sempre franca e i villani ingegnosi che, accecati dalla fame, non riescono mai a svincolarsi dalla loro condizione.

Fu proprio Malerba con il suo quasi sconosciuto film Donne e soldati (1955) a ispirare L’armata Brancaleone di Mario Monicelli, dando il via a quel filone cinematografico vincente e duraturo del comico medievale, dal quale anche Il pataffio attinge a piene mani e nel quale si colloca a pieno diritto, ravvivando la scena attuale con un ottimo titolo che, va detto, di nuovo in realtà non ha nulla. Sembra ovvio, quindi, che il modo migliore per descrivere Il pataffio sia attraverso il confronto con opere del passato, affermando la possibilità di creare ancora oggi una comicità scaltra, ma non per questo irraggiungibile e “riservata”. Tuttavia, un divario effettivo si riscontra in questo passaggio: quello che un tempo sarebbe stato un film popolare e amatissimo, oggi, proprio per le sue caratteristiche più autentiche, è un film che rimane invece riservato a un pubblico più âgée e a una piccola schiera di affezionati che ritroveranno, grazie a una scelta di attori azzeccatissimi e preparatissimi, il Brancaleone del passato, senza in ogni caso ricadere nel remake sensazionalistico o nel tributo ossequioso.

Alberto Militello