“Kodachrome” di Mark Raso – Recensione

Kodachrome

L’analogico e il digitale, l’arte del passato e quella del presente, i vecchi artisti contro i nuovi. Kodachrome è il secondo lungometraggio del regista canadese indipendente Mark Raso, presentato al Toronto International Film Festival nel 2017, un discorso sul “nuovo volto” dell’arte mascherato da road movie.

Matt Ryder (Jason Sudeikis) è un agente e scout musicale per un’etichetta indipendente, predilige il risultato artistico al tormentone, una pratica che nel tempo non può che mettere a repentaglio la sua carriera. Intanto, Matt viene a sapere dell’imminente morte del padre Ben (Ed Harris), famoso fotografo che esprime un ultimo desiderio, ovvero di raggiungere, in Kansas, l’ultimo luogo in cui è possibile sviluppare i rullini Kodachrome. Con riluttanza, Matt accetta, intraprendendo un viaggio che lo porterà alla scoperta di se stesso e di suo padre. La trama non è tra le più originali, ma trova una sua dimensione specifica in quanto scandita dal ritmo del road movie e impreziosita da una colonna sonora ricca di classici.

Kodachrome

Esattamente come una fotografia che viene sviluppata, passo dopo passo, una tappa del viaggio dopo l’altra, l’immagine di ognuno dei personaggi si fa via via sempre più nitida, soprattutto quella di Ben che è il fulcro della vicenda, ma anche del discorso sull’arte simboleggiato dal contrasto tra padre e figlio. Ben, infatti, è un fotografo di frontiera e trova nella pellicola, nel numero esiguo di scatti che un rullino può contenere la poesia del suo mestiere, quella capacità di fissare gli attimi nel tempo, ma anche nello spazio, rispetto alla “spazzatura di dati” che ci lasciamo dietro. Il mestiere di Matt invece, è emblematico in quanto, in un certo senso, racchiude la frustrazione di un’arte “messa da parte” per favorire un mondo governato dal denaro, in cui la purezza della creazione artistica viene costantemente soffocata.

Non è quindi la malattia del padre il nucleo tematico di Kodachrome, ma l’arte e la fotografia come mezzi capaci di proiettare e manifestare il proprio Io verso gli altri quando ogni altro espediente sembra ormai inutile. Proprio per questo il film non risulta appesantito dal pensiero della morte del corpo, quanto più segnato dall’amarezza per la fine di un’era, ovvero quella dell’analogico, un’era i cui sopravvissuti sono solo i nostalgici, tra cui lo stesso regista che ha scelto di girare su pellicola 35mm e di costellare il film di piccoli omaggi visivi ad altri registi, da Dennis Hopper a Giuseppe Tornatore.

Alberto Militello