“Lamb” di Valdimar Jóhannsson – Recensione

Lamb

Maria (Noomi Rapace) e Ingvar (Hilmir Snær Guðnason) possiedono una fattoria isolata nel nord dell’Islanda. La monotona e ripetitiva quotidianità della coppia viene spezzata da un’improvvisa scoperta: una delle loro pecore ha dato alla luce un grottesco ibrido agnello-umano. La creatura, Ada, viene presa in custodia da Maria e Ingvar, che la cresceranno come se fosse loro figlia. Nonostante l’idea narrativa di Lamb possa riportare alla mente una precisa matrice folk horror alla The Witch o alla Hagazussa, i territori estetici che il film percorre sono in realtà molto più vicini ad una proposta dal sapore più esistenzialista, sia nella forza espressiva sia nella dilatazione temporale del racconto.

Lamb, vincitore del premio per l’originalità al Festival di Cannes e dal 31 marzo in sala con Wanted Cinema, è l’esordio dietro alla macchina da presa per Valdimar Jóhannsson. Il regista islandese rielabora il cinema di Béla Tarr (il quale figura tra i produttori esecutivi del film) e di Carlos Reygadas in un’opera che vuole consapevolmente perseguire un punto d’incontro tra una certa attitudine contemplativa, verso il cinema stesso ma anche nei confronti della vita, e una frontiera folk mitizzante, oscura e a tratti ineffabile.

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Da questo punto di vista, per fare un paragone estremo ma sensato, è facile capire perché Lamb non sia Servant – e quindi un teatro degli orrori bulimico e senza direzione – bensì un peculiare tentativo di indagare il trauma della perdita, il suo impatto e le sue sfumature in una cornice che normalizza l’ibridismo grottesco di Ada per permettere allo spettatore di soffermarsi con maggiore attenzione sul contesto personale di Maria e Ingvar. Se la decisione della coppia di tenere e di crescere Ada inizialmente appare come una follia dissacrante, diventa presto chiaro come alla base di tutto vi sia invece una profonda spinta alla razionalizzazione di un trauma e una volontà soggiacente che guarda alla necessità di una ripartenza.

Proprio in tal senso, a mantenere ancorato lo spettatore tra gli orizzonti imperturbabili e ondivaghi tracciati dal film è la prova attoriale di Noomi Rapace, convincente nel tratteggiare un personaggio alla ricerca di una nuova raison d’être per se stessa e per il marito, in un discorso che non comprende solamente Ada ma che abbraccia anche la vita di coppia, la sessualità e il quieto vivere.

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Tuttavia, le conseguenze delle scelte di Maria e di Ingvar si faranno presto sentire, coinvolgendo anche la figura del fratello dell’uomo, Pétur (Björn Hlynur Haraldsson). D’altronde, le peculiarità di Ada non possono essere facilmente messe da parte e la sua singolare natura non potrà che emergere come centrale per gli sviluppi del film, sia in prima persona sia come entità alla mercé di ciò che la circonda.

Nei suoi tre capitoli, pur mantenendo una coerenza formale estremamente percepibile, Lamb si muove su diversi piani, a partire dalle derive cupe e metafisiche simil-Béla Tarr sino ad arrivare alle visioni meno irrequiete che riguardano più da vicino il contesto familiare, passando da sottotesti veterotestamentari e da riconfigurazioni folk originali e inaspettate. Con il suo suggestivo esordio, Valdimar Jóhannsson ha dunque colto nel segno, dimostrando una spiccata sensibilità autoriale nel saper rimaneggiare le sue influenze per cercare di creare qualcosa di nuovo.

Daniele Sacchi