Le otto montagne, la recensione del film

Le otto montagne

Il film vincitore del Premio della Giuria al Festival di Cannes nel 2022 e del David di Donatello come miglior film, Le otto montagne (2022) di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, è ora disponibile su Prime Video. Il duo di registi belga – lei al suo esordio cinematografico, lui conosciuto per lungometraggi come Alabama Monroe (2012) e Beautiful Boy (2018) – porta sullo schermo una storia di amicizia nel suo senso più puro, affrontando temi complessi con una profonda sensibilità.

Adattamento dell’omonimo romanzo vincitore del Premio Strega (2017) di Paolo Cognetti, Le otto montagne racconta la storia di Pietro e Bruno – interpretati da due amici nella vita, oltre che sul set, Luca Marinelli e Alessandro Borghi, che tornano a recitare insieme a distanza di sette anni da Non essere cattivo (2015). I due protagonisti s’incontrano per la prima volta a undici anni, quando i genitori di Pietro affittano una casa a Grana (in Valle d’Aosta) per trascorrere le vacanze estive. Bruno è l’unico bambino del paese e insieme trascorrono intere giornate, diventando presto compagni inseparabili e scoprendo tutti i segreti delle montagne.

Secondo una leggenda nepalese, al centro del mondo risiede un monte altissimo, il Sumeru, intorno al quale si trovano otto montagne e otto mari. Alcune persone sono fatte per viaggiare per le otto montagne, altre per stare fermi sulla montagna centrale. Lo stesso vale per i due protagonisti, che rappresentano due visioni del mondo opposte, ma complementari. Bruno è legato indissolubilmente alla sua montagna, per lui tutte le cose hanno un nome: «siete voi di città che la chiamate natura. È così astratta nella vostra testa che è astratto pure il nome». Per Pietro invece l’orizzonte è più complesso, è un ragazzo di città che vive la montagna solo d’estate, ed è pieno di domande a cui cerca di dare risposta. Bruno non potrebbe vivere in nessun altro luogo se non tra le sue montagne. Pietro invece non sta mai fermo, è sempre in cerca del suo “centro”, del suo posto nel mondo, una ricerca perseguita anche attraverso i viaggi e la scrittura.

Le otto montagne si sviluppa quindi sulla dicotomia rappresentata dai due protagonisti, in una parabola narrativa che racconta un’amicizia che si sviluppa nel corso di vent’anni. Pietro e Bruno prendono strade diverse, per poi ritrovarsi da adulti dopo la morte di Giovanni (il padre di Pietro, interpretato da Filippo Timi). Si ritrovano proprio lì, di nuovo sulle montagne di Grana, il luogo da cui tutto è partito e a cui tutto torna. Il loro posto nel mondo, nonostante il tempo e le distanze.

I registi prendono posizione e, seppur rimanendo fedeli al romanzo di Cognetti, attuano scelte stilistiche non scontate, come quella del formato in 4:3 che non lascia spazio a panorami (e panoramiche). Al contrario, l’inquadratura si chiude e lo sguardo è proiettato verso gli aspetti più umani e intimi del racconto. Il paesaggio dunque non fa da semplice sfondo alla storia, ma diventa paesaggio-esistenziale, palcoscenico di conflitti interiori, nonché collante identitario per i due protagonisti. Niente vizi di forma e, come per la recitazione di Borghi e Marinelli, si gioca sulla sottrazione per arrivare all’essenza (anche della loro amicizia).

Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, così come Cognetti, non nascondono una certa malinconia esistenziale, anzi, e conclusa la visione del film ciò che rimane è proprio un senso di solitudine e spaesamento. L’isolamento di Bruno e di Pietro è spesso voluto e cercato, ma si fa anche mezzo necessario per capire chi si è realmente. Spetta infine al pubblico trarre le proprie conclusioni: «avrà imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne, o chi è arrivato in cima al monte Sumeru?».

Martina Dell’Utri