Porco Rosso, la recensione del film di Hayao Miyazaki

Porco Rosso

«Piuttosto che diventare un fascista, meglio essere un maiale». La celebre affermazione di Porco, il maiale antropomorfo un tempo conosciuto come l’aviatore Marco Pagot (un omaggio a Nino e Toni Pagot, i creatori di Calimero), contiene tutta l’essenza di Porco Rosso. Il film di Hayao Miyazaki, infatti, è un inno alla libertà, un’ode alla vicinanza e un completo rifiuto verso tutto ciò che invece mira ad allontanarci l’un dall’altro. Da un certo punto di vista, Porco Rosso contiene in sé tutto il senso complessivo della cinematografia miyazakiana, a partire dall’incommensurabile bontà di fondo che ne tratteggia gli orizzonti, matrice inossidabile di un’idea di cinema come tessuto connettivo il cui unico rigetto è riscontrabile nel suo opposto, ossia nella tirannia e nella separazione.

Come accade in tutte le opere di Miyazaki, anche Porco Rosso attribuisce alla sua ambientazione un’importanza fondamentale per la narrazione. A differenza però di film come Princess Mononoke, il quale proietta il reame del fantastico nell’epoca Muromachi della storia giapponese, o come Il mio vicino Totoro, dove è il Giappone degli anni ’50 ad essere piegato dalle istanze di un immaginario shintoista e dalle derive profondamente ecologiste (ma si potrebbero citare in tal senso anche i meravigliosi Nausicaä della Valle del vento e La città incantata), Porco Rosso è invece maggiormente radicato nei territori del Reale, come accadrà d’altronde anche nel semibiografico Si alza il vento. Porco Rosso, infatti, è ambientato in Italia durante il ventennio fascista, rendendone in alcuni casi centrali le dinamiche, come ad esempio è possibile rilevare nelle spedizione punitive organizzate dal governo ai danni di Porco.  

Nonostante questo ancoraggio storico di base, Miyazaki riesce comunque a permeare la narrazione del suo film – grazie anche alle singolari particolarità del carismatico Porco – di un substrato fantastico, riecheggiato anche nel racconto dell’esperienza vissuta dal protagonista durante la prima guerra mondiale, dai tratti quasi onirici. Ma è già nella sequenza iniziale del film, il tentativo di salvataggio da parte di Porco di un gruppo di bambine rapite da alcuni pirati dell’aria, che si può percepire tutta la magia del cinema di Miyazaki, capace di assegnare un respiro gioviale, puro e fiabesco ad un momento dinamico e tendenzialmente di “azione”, grazie anche al candore delle bambine e alla simpatica ottusità piratesca. Vi è, in tal senso, un profondo romanticismo in Porco Rosso, sottolineato a più riprese nella delineazione dei rapporti tra Porco e tutte le altre persone con cui viene a contatto, come l’armoniosa amica d’infanzia Gina e come la giovane – ma esperta – progettista di idrovolanti Fio.

Le stesse sensazioni sono riscontrabili persino in una figura antitetica a Porco, l’asso dell’aviazione statunitense Donald Curtis (un esplicito riferimento al biplano Curtiss). Il rivale di Porco, in aria e in amore, incarna il mito del pilota “supereroe” americano, una tradizione dell’immaginario occidentale che nasce nella prima guerra mondiale e sopravvive ancora oggi, sia nella realtà sia nel cinema. In generale, Hayao Miyazaki omaggia continuamente nel suo film l’aviazione, di cui è grande appassionato (per usare un eufemismo). Il volo è sempre, in un modo o in un altro, una componente fondamentale delle opere di Miyazaki, e qui si trova fortemente intrecciato con la passione per l’Italia, sublimata non solo nelle ambientazioni adriatiche e milanesi, ma anche nella scelta del titolo in italiano. Porco Rosso è dunque una vera e propria lettera d’amore per il nostro Paese, ma con l’emozionante storia del suo protagonista rappresenta anche – e soprattutto – un autentico elogio alla vita, alla bellezza, alla libertà.

Daniele Sacchi