Society di Brian Yuzna, la recensione del film

Society

«The rich have always fed off the poor», i ricchi si sono sempre nutriti dei poveri. È la tesi fondamentale discussa da Brian Yuzna nel suo Society (1989), film cult che fa propria la lezione del cinema horror indipendente anni ’80 nel suo mettere apertamente in discussione le ipocrisie sociali dell’epoca. A metà tra le riflessioni carpenteriane di Essi vivono e il cinema di Stuart Gordon (di cui Yuzna fu produttore, ricordiamo i lovecraftiani Re-Animator e From Beyond), Society destruttura infatti un certo immaginario tipicamente americano – l’American dream, il perseguimento della felicità, ecc. – con un body horror marcescente che cerca di esporre l’abiezione e il degrado morale dell’upper class statunitense.

Al centro della trama di Society troviamo Bill Whitney (interpretato da Billy Warlock, attore che diventerà in seguito celebre per Baywatch), un giovane benestante che abita a Beverly Hills insieme ai suoi genitori e alla sorella Jenny. Tutto nella vita di Bill sembra andare a gonfie vele. Il ragazzo è infatti molto popolare, è fidanzato con una cheerleader ed è il favorito per ottenere la posizione di rappresentante scolastico. Qualcosa di indefinito, però, lo inquieta profondamente, tanto da spingerlo a incontrare di frequente uno psichiatra per dare sfogo ai suoi turbamenti. In una escalation di allucinazioni inspiegabili, di paranoie opprimenti (fomentate dall’ex ragazzo di Jenny, David) e di sospetti nei confronti delle attività praticate in segreto dalla sua famiglia, la sua ricerca della verità non potrà che culminare infine in un incubo grottesco e raccapricciante.

Society architetta gradualmente la sua discesa verso l’orrore, muovendosi inizialmente per territori facilmente riconducibili al teen drama e alle frontiere del thriller psicologico. Abbiamo gli intrighi amorosi del protagonista (il quale verrà presto rapito dalle avances aggressive della misteriosa Clarissa, interpretata dalla playmate Devin DeVasquez), le incomprensioni genitoriali, nonché la rappresentazione dei classici sentimenti adolescenziali legati al non sentirsi capiti e al non riuscire ad esprimere se stessi fino in fondo. A fianco a ciò, Yuzna esplora un intrigo che unisce i tormenti interiori del protagonista con la presenza di una minaccia più grande, qualcosa di più viscerale, malsano e perverso che riguarda da vicino la sua famiglia.

È così che Society si trasforma presto in una manifestazione esplicita degli orrori apparentemente celati nel tessuto sociale (orrori in realtà ben presenti e radicati), esasperandoli e portandoli all’estremo. Grazie anche al ricorso ai magistrali effetti speciali curati dal talento visionario di Screaming Mad George, la spirale di dubbi e di paranoie di Bill finisce progressivamente per mutare in un vero e proprio banchetto del terrore, uno shunting (la suzione, nella versione italiana) che esibisce concretamente la corruzione libidinosa della borghesia statunitense – le affinità con Buñuel sono evidenti – nonché l’avidità di potere e la mortificazione di un’alterità considerata indegna.

Con un fascino quasi cronenberghiano, Yuzna mette in scena una poetica della carne mutata che racchiude in sé, nella sua massa informe sudicia e putrida, il degrado delle apparenze tipico della società capitalista, dove i ricchi non possono che finire – appunto – per cibarsi dei poveri, risucchiandone la linfa vitale, sia metaforicamente sia letteralmente. L’orgia di puro disgusto che ne consegue (il completo opposto dell’abbuffata anarco-liberatoria de Le margheritine di Věra Chytilová, se vogliamo azzardare un paragone), inaspettatamente, riesce anche a divertire con le sue cadute kitsch – pensiamo ad esempio alla celebre sequenza della “faccia da culo” – unendo alla sua tagliente critica sociale quel gusto camp frivolo e da b-movie che ne smussa, con successo, la “pesantezza” tematica, ponendosi a cavallo tra il cinema di denuncia e la goliardia del divertissement.

Daniele Sacchi