The Holdovers di Alexander Payne, la recensione del film

The Holdovers

The Holdovers è il nuovo film dell’acclamato regista statunitense Alexander Payne, presentato fuori concorso al 41esimo Torino Film Festival e in arrivo nelle sale italiane il 18 gennaio 2024. A quasi 20 anni da Sideways, il film riunisce Payne con l’attore Paul Giamatti, qui nelle vesti di Paul Hunham, odioso insegnante di lettere classiche in un collegio del New England. Sono gli anni ’70 e a Paul spetta la supervisione di un gruppo di ragazzi costretti a rimanere a scuola durante le vacanze di Natale. Il rapporto conflittuale, tra scontri e punti di incontro, che si verrà ad instaurare con il giovane Angus Tully (interpretato da Dominic Sessa) condurrà Paul, piano piano, a riflettere attivamente su se stesso, sui propri metodi e modi.

Distante da Election, film del 1999 basato sull’omonimo romanzo di Tom Perrotta dove Payne aveva già indagato la dimensione scolastica attraverso il registro della satira politica, The Holdovers spicca soprattutto per la sua profonda umanità. Il film inizia come una sorta di anti-L’attimo fuggente, per poi sfiorare brevemente i toni di Breakfast Club ed infine trovare la propria quadra in un racconto di formazione e di confronto capace di smussare le differenze fondamentali vigenti tra i suoi protagonisti. Centrale nello sviluppo di questo percorso sarà il personaggio della cuoca della scuola, Mary Lamb (Da’Vine Joy Randolph), una madre in lutto per la morte del figlio avvenuta durante la guerra in Vietnam, nonché il vero cuore dell’opera.

Visivamente, The Holdovers sembra provenire direttamente dall’epoca in cui è ambientato, grazie anche ad una direzione della fotografia (la mano è di Eigil Bryld) che rimanda esplicitamente all’estetica del cinema americano settantiano. La scelta di un feel retro attribuisce al film un’atmosfera nostalgica, in linea con la natura introspettiva di un intreccio dolceamaro che scava a piene mani tra le trame del vissuto umano. Payne infrange la cornice natalizia classica mettendo da parte lo spettro del divertimento e delle riunioni famigliari (un punto dolente soprattutto per Angus) per portare invece lo spettatore a stretto contatto con tre figure sole, abbandonate e incomprese, soffermandosi però anche su ciò che le accomuna e le avvicina.

A mancare in The Holdovers è però un guizzo creativo forte, una scossa che folgori realmente (la questione dell’occhio di Paul, chiusa sagacemente, è l’unica componente che vi si avvicina) e fino in fondo in quello che comunque appare come un ottimo manifesto sulla vicinanza empatica e sulla connessione con gli altri. Payne articola un discorso umano essenziale che, pur non sconvolgendo in nulla, porta a compimento le sue premesse in modo semplice e onesto, delineandosi in un comfort movie piacevole anche se fin troppo rassicurante.

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Daniele Sacchi