The Ugly Stepsister, la recensione del film di Emilie Blichfeldt

The Ugly Stepsister

Reframing della fiaba di Cenerentola, The Ugly Stepsister è la folgorante opera prima della regista e sceneggiatrice norvegese Emilie Blichfeldt. Tra horror corporeo e satira sociale, il film di Blichfeldt si muove per opposizioni e scambi prospettici in una commedia grottesca mai scontata nonostante il canovaccio noto. Se The Substance di Coralie Fargeat può sembrare il naturale metro di paragone, The Ugly Stepsister rivendica in realtà una propria linfa vitale, autonoma e genuina, sospesa tra una matrice gore – non persistente, ma che affonda quando deve – e un black humour surreale dal sapore retro, quasi da nová vlna per il suo lato tragicomico, trasformativo e kafkiano.

La “brutta sorellastra” del titolo è Elvira (Lea Myren), una sorta di Pearl (ma decisamente più misurata) che non sogna di diventare una star, bensì una principessa. La madre di Elvira, Rebekka (Ane Dahl Torp), si è risposata con il vedovo Otto nella speranza di ottenerne il patrimonio, ma alla morte dell’uomo segue un’amara presa di coscienza: in realtà, il marito non possedeva un soldo. Così, Rebekka decide di spendere i suoi ultimi averi nel tentativo di rendere appetibile la figlia Elvira per il principe Julian, tra chirurgia estetica rudimentale e lezioni di galateo nobiliare. La sorella Alma (Flo Fagerli) scampa all’intero processo in virtù della sua giovane età, ma Elvira si troverà comunque a dover competere con la figlia del defunto Otto, la cenerentola Agnes (Thea Sofie Loch Næss).

Pur scegliendo di soffermarsi sul punto di vista specifico di una delle sorellastre di Cenerentola, The Ugly Stepsister evita ogni possibile rilettura moralistica rifuggendo da facili trappole identitarie e dalla costruzione di meri “giochi” di alternanze. Blichfeldt ragiona invece sulla cornice del trasformativo nel tessuto del sociale, lavorando attraverso una satira pungente, scabrosa e impudica, ibridata a sensazioni body horror che, nonostante l’ambientazione da period drama, respirano di contemporaneità (da Sick of Myself a Club Zero). A monte, la ricerca del bello e della perfezione estetica, non nell’ottica di una tentata auto-accettazione – qui vi è lo scarto con The Substance – bensì con una ricompensa all’orizzonte: denaro per la madre, un amore idilliaco per la figlia.

Con una libertà creativa sorprendente, The Ugly Stepsister procede dunque a smontare l’ossessione circa la performance sociale attraverso la spirale discendente della sua protagonista, tra tenie dimagranti e ritocchi facciali, sino ad arrivare a un climax “mutilante” ripreso direttamente dalla fiaba dei fratelli Grimm. In questo processo, subentra uno scambio empatico che si muove senza soluzione di continuità tra Elvira e la rivale Agnes, non – come dicevamo – riducendone i ruoli in una contrapposizione dualistica astratta in virtù di uno schematismo identitario utile solo a prendere le parti di una o dell’altra, ma tratteggiandole entrambe come figure sottomesse a un male gaze mercificante.

Lo sguardo registico di Emilie Blichfeldt, però, non è intriso di cinismo. Qualcosa in più forse è possibile, sia nell’accettazione – nonostante tutto – di ciò che potrebbe essere meglio per noi stessi in un oceano di vacuità (la strada di Agnes, in questo, segue una direzione ben precisa), ma anche nella ricerca di una via di fuga dal dominio di uno sguardo de-umanizzante. Qualcosa che forse possiamo ricercare in Alma, sorella silenziosa ma pragmatica, un’alterità “insolita” e sovversiva, né spettacolarizzata né vittimizzata. E per questo libera.

Daniele Sacchi