Nel 2009 l’attrice franco-britannica Charlotte Gainsbourg si aggiudica il premio come miglior attrice al Festival del Cinema di Cannes per la sua sconvolgente interpretazione in Antichrist, film diretto dal controverso regista danese Lars von Trier. Accanto a Willem Dafoe, Gainsbourg interpreta una madre la cui vita cambia completamente dopo la prematura morte del figlio, che precipita da una finestra mentre i genitori, ignari, sono nel mezzo di un rapporto sessuale. Lars von Trier decide di non dare alcun nome ai suoi protagonisti, lasciando una maggior libertà di immedesimazione allo spettatore.
Sarebbe impossibile incasellare Antichrist in un genere cinematografico in particolare poiché affronta varie tematiche tramite un linguaggio filmico ibrido che però viene rivisto e reinterpretato dallo stile inconfondibile di Lars von Trier. Antichrist è inoltre una profonda analisi psicanalitica e, infatti, i due protagonisti diventano immediatamente paziente e terapista nello sviluppo del loro rapporto post-trauma.
Lars von Trier divide il film in un prologo, quattro capitoli e un epilogo. Se prologo ed epilogo adottano uno stile simile, con l’uso del bianco e nero e di uno slow motion esasperato, i quattro capitoli centrali sono stati girati con uno stile scuro, tagliente e molto realistico. La struttura ad atti riproduce quella che sarà l’evoluzione del personaggio della madre che, in un primo momento, risulta essere visibilmente in preda ad una crisi depressiva ma, con l’apertura dei capitoli successivi, quella che sembrava essere una “semplice” crisi post-traumatica diventa qualcosa di più oscuro, più esoterico, più diabolico. Lo stesso cambiamento di giudizio avviene anche con il film stesso. Se da una parte lo spettatore interpreta la prima metà del film come un racconto molto crudo e realistico di un trauma materno, nella seconda parte una rivelazione farà assumere allo spettatore un altro punto di vista, più vicino al genere dell’orrore.
Von Trier, come da tradizione teatrale risalente all’Antica Grecia, utilizza il prologo sia per introdurre narrativamente il racconto sia per anticipare quelli che saranno i contenuti dell’opera. Infatti, se si osserva attentamente, un’inquadratura in particolare anticipa i titoli dei quattro capitoli. Sul tavolino che utilizza il bambino per sporgersi dalla finestra prima di perdere la vita sono posti tre mendicanti (il quarto capitolo non a caso si chiama proprio “The Three Beggars”, i tre mendicanti), ognuno con un’incisione precisa sul piedistallo: “Pain”, “Grief” e “Despair” (dolore, lutto e disperazione). I primi tre capitoli in cui von Trier divide il suo film sono, appunto, in ordine “Grief”, “Pain, Chaos Reigns” e “Despair, Gynocide”. Gli stessi titoli si ripresentano poi nella seconda parte del film, questa volta associati ad alcuni animali selvatici che appaiono nei vari capitoli: il cervo, associato al lutto; la volpe, associata al dolore; il corvo, associato alla disperazione. Questa ripetizione servirà poi a dare il via all’interpretazione più oscura del racconto: queste illustrazioni vengono in seguito trovate dal padre in mezzo agli appunti che la sua compagna stava raccogliendo per ultimare la stesura di una tesi.
Lo stile narrativo e cinematografico che accompagna questo forte progetto è facilmente ricollegabile a quella che in passato è stata la poetica del regista danese, il Dogma 95. Pur non appartenendo direttamente al movimento fondato da Thomas Vinterberg e da von Trier, quest’ultimo e il suo Antichrist rispondono spesso ad alcuni dei dettami contenuti nel decalogo del manifesto di Dogma. Il Dogma, infatti, venne sottoscritto da alcuni registi negli anni Novanta per contrastare la tendenza dell’epoca alla realizzazione di film con budget esorbitanti, con l’obiettivo, quindi, di salvaguardare l’arte cinematografica considerata indipendente, libera da tutti i fronzoli di cui il cinema mainstream è costituito. Il realismo che permea l’opera di von Trier deriva proprio dall’influenza dei suoi lavori negli anni Novanta che hanno fatto parte del Dogma, uno stile forte e crudo che preferisce sempre mostrare allo spettatore e non celare. Una costante della sua filmografia insieme al ricorso a simboli e ad allegorie, basti pensare, ad esempio, ai due capitoli di Nymphomaniac (2013) o al suo ultimo The House That Jack Built (2018).
Antichrist resta, senza ombra di dubbio, uno dei film più importanti del regista danese che, grazie alla sua storia personale, è riuscito a mostrare al pubblico quelle che sono le fragilità della psiche umana, anche di figure e di personalità per cui è difficile provare empatia.
Erica Nobis