Beau ha paura, la recensione del film di Ari Aster

Beau ha paura

Ari Aster ha dimostrato con Hereditary e Midsommar di essere un regista pienamente consapevole delle potenzialità del medium cinematografico, scavando a fondo nell’immaginario horror tra traumi, possessioni e culti sacrificali nel tentativo di infondere nuova linfa vitale al genere (senza dimenticare di confrontarsi con i classici, da Rosemary’s Baby a The Wicker Man). Con la sua terza pellicola, Beau ha paura (Beau is Afraid), il regista statunitense riprende le istanze del suo cortometraggio Beau per proseguire il suo viaggio nell’abiezione umana, questa volta muovendosi però in una direzione molto differente rispetto ai suoi primi due film. Beau ha paura è infatti un’odissea omerica del macabro, un turbinio caotico, dissonante e grottesco che trascina ferocemente lo spettatore nei suoi orizzonti ansiogeni, onirici e surreali.

La struttura di genere viene messa da parte da Aster, ma le derive horror permangono solidamente nel tessuto perturbante tracciato dal film. Beau ha paura è il viaggio infernale compiuto dal povero Beau (interpretato magistralmente da Joaquin Phoenix), un’epopea tragicomica a cavallo tra realtà e immaginario, tra drammi concreti e visioni paranoidi, tra traumi irrisolti e rapporti familiari precari. Dopo aver scoperto della morte della madre (Patti LuPone), infatti, Beau si perderà in un oceano frammentario di visioni e di esperienze deliranti, dal quale non sembra esserci alcuna via di fuga.

Nelle tre ore di durata del film di Aster si possono individuare quattro segmenti narrativi principali, se per forza dobbiamo ostinarci nel ricercare un’ossatura e un intreccio alla base del tutto. A tenere ancorati questi quattro percorsi è la centralità di Beau e delle sue ossessioni: Beau è un personaggio estremamente passivo, incapace di reagire realmente a tutte le (dis)avventure che lo vedono come protagonista, memore di un passato che, specialmente nel rapporto con la madre, lo ha segnato – e turbato – in profondità, complice anche l’assenza paterna, circondata da un substrato sessuale imprevisto che nel corso del film graverà pesantemente sull’uomo.

Tenendo come riferimenti evidenti Synecdoche, New York di Charlie Kaufman e Inland Empire di David Lynch (ma anche una certa comicità dell’assurdo che sembra quasi strizzare l’occhio al cinema di Hal Hartley), Ari Aster si affida ad un caosmos rizomatico stratificato, mettendo in scena una complessa spirale discendente in grado di trasportare lo spettatore direttamente nel vissuto più intimo di una personalità in grave difficoltà psicologica. Dopo una prima parte acuta e brillante però, incentrata perlopiù sull’appartamento di Beau e sulle sue ansie più facilmente inquadrabili, il film si perde progressivamente in una reiterazione esasperata del dolore (pensiamo ad esempio alla sequenza della vernice nel secondo segmento), reificando la parabola sporca, ruvida e marcia di Beau in un autocompiacimento continuo e fine a se stesso, raggiungendo il suo climax nella sequenza teatrale, assolutamente superflua e inconcludente per quanto ben animata (il riferimento è al film cileno La casa lobo).

Aster è un regista talentuoso e un maestro nel creare atmosfere tensive e orrorifiche – l’ultima parte del film, in tal senso, è di grande impatto, specialmente negli ultimi minuti (sebbene non siano assolutamente paragonabili ai punti più alti raggiunti da Hereditary e Midsommar) – ma il risultato complessivo è purtroppo un buco nell’acqua. Non bastano le grandi idee per fare un buon film: Beau ha paura è una collezione di sovrastimolazioni sensoriali senza scopo che, anche a causa della passività del suo protagonista e dell’incapacità di confrontarsi con i suoi demoni, non riesce a protendersi realmente verso alcuna meta.

Daniele Sacchi