Copenhagen Cowboy, la recensione della serie di Nicolas Winding Refn

Copenhagen Cowboy

Miu, la protagonista di Copenhagen Cowboy, è una ragazza molto particolare. Silenziosa e all’apparenza inoffensiva, Miu (interpretata da Angela Bundalovic) è in realtà dotata di abilità estremamente singolari, inspiegabili, forse dalla matrice addirittura sovrannaturale. Immigrata irregolare e sprovvista di documenti, Miu si trova a dover fare a patti con le sottoculture criminali di Copenhagen, tra luci al neon insistenti, delinquenti pericolosi e maiali affamati. La nuova serie di Nicolas Winding Refn, in continuità con la precedente Too Old to Die Young, segue un proprio percorso estetico e narrativo che la allontana dal prodotto seriale comune, innervandosi pienamente, invece, con l’identità cinematografica del suo autore. Nonostante la confezione sia quella di una miniserie in sei episodi, Copenhagen Cowboy respira attraverso i ritmi e le dinamiche tipiche del cinema refniano, e come tale deve essere esperita, vissuta ed interiorizzata.

Refn trascina lo spettatore in un mondo disseminato di ambiguità, di gestualità e di movimenti da interpretare con i codici forniti dallo stesso regista attraverso il suo florido ecosistema immaginario in grado di unire un realismo crudo a fantasie tetre, tra l’inarrestabile insorgere di una criminalità “veritiera” e il suo collidere con le frontiere del “sovrannaturale” e dell’irrazionale. Vi è una spinta anche lynchiana nel tessuto visivo tracciato dall’autore danese, non solo in alcune pillole stilistiche – come, ad esempio, nella soggettiva delle strade del primo episodio che richiama esplicitamente Strade perdute – ma anche nei toni più cupi e surreali che spesso invadono, incontenibili, i margini del racconto. I registri predominanti, però, di Copenhagen Cowboy sono puramente Refn, dalle atmosfere noir della trilogia di Pusher (ritorna anche Zlatko Burić) alle derive da revenge movie di Drive e di Solo dio perdona, sino ad arrivare infine all’esoterismo pop di The Neon Demon.

Nonostante i diversi percorsi intrapresi, Copenhagen Cowboy mantiene una profonda coerenza e continuità dall’inizio alla fine, operando perlopiù attraverso spazialità e temporalità negative. Refn lavora di sottrazione, lasciando i veri sconvolgimenti a urti e lampi improvvisi, preferendo soffermarsi, per la maggior parte della serie, su una meticolosa analisi visuale di ciò che circonda Miu e i vari personaggi mano a mano presentati. Non stupisce, da questo punto di vista, il frequente ricorso a panning a 360 gradi durante sequenze apparentemente stazionarie o il cui scopo non è immediatamente chiaro. La macchina da presa, invece di seguire un movimento o qualcosa di specifico, si muove ondivaga nell’esplorazione degli ambienti alla ricerca di dettagli imprevisti o, in alcuni casi, anche solo con il semplice scopo di riposizionarsi al punto di partenza, suggerendo come nello spazio di pochi istanti qualcosa sia in realtà cambiato.

La fissità di Copenhagen Cowboy, d’altronde, è solamente un’apparenza. Persino nei momenti meno incisivi della serie, l’azione drammatica torreggia in ogni inquadratura. La macchina da presa osserva continuamente le reazioni dei suoi personaggi, o in alcuni casi anche le non-reazioni e i non detti, sondando il terreno per preparare al meglio la strada al sopraggiungere, infine, dei suoi urti dirompenti. In tutto ciò, l’unica piccola flessione evidente di Copenhagen Cowboy risiede nell’eccessiva apertura di fondo nei momenti conclusivi, specialmente dopo il suo climax travolgente, un’apertura che sembra quasi voler confidare nel rinnovo per un eventuale seguito più che proporsi come un’effettiva “marca” autoriale. Per il resto, Copenhagen Cowboy è sicuramente quanto di meglio il medium seriale possa offrire oggi.

Daniele Sacchi