“Donnie Darko” di Richard Kelly – Recensione

Donnie Darko

Nell’ottobre 2001 sarebbe stato difficile immaginare la futura ascesa di Donnie Darko da disastro commerciale a cult assoluto. All’epoca della sua uscita, infatti, il film di Richard Kelly è risultato un completo flop al botteghino, forse a causa anche della vicinanza con gli attacchi terroristici dell’11 settembre e alla conseguente scelta di rimuovere dal marketing tutti i riferimenti al motore aereo che nell’incipit crolla sulla casa del protagonista (l’allora grande talento emergente Jake Gyllenhaal), rendendo più opaca la natura dell’intreccio. In Italia, fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, Donnie Darko è arrivato addirittura tre anni dopo rispetto al suo primo passaggi americano in sala.

Nonostante tutto ciò, una fitta schiera di appassionati e di cinefili hanno nel tempo conosciuto e amato il film, in particolar modo grazie ai meccanismi comunicativi di Internet che hanno permesso alla trama onirico-fantascientifica (sebbene intensamente calata nel reale) di Donnie Darko di disvelarsi attraverso molteplici teorie e nuove forme, complice anche l’uscita di una Director’s Cut voluta da Kelly. Così, mentre piano piano la carriera del regista è andata declinando, la storia di Donnie e dell’inquietante coniglio Frank si è definitivamente impressa nell’immaginario collettivo. Alla base vi è sicuramente anche l’impresa di Kelly di essere riuscito a catturare con il suo film le ansie, i timori e le crisi della generazione Y (i cosiddetti millennial), incapsulando nella personalità borderline di Donnie tutte quelle istanze tipiche di un certo modo di intendere, di fruire e di vivere il Reale.

Donnie Darko

Oltre alla messa in scena delle tendenze doomer di Donnie, condotto inevitabilmente dalle sue visioni ed esperienze oniriche a credere che il mondo stia per finire, il film di Richard Kelly agisce su diversi fronti, passando da prese di posizione deterministe – con conseguente ribaltamento delle stesse nei momenti conclusivi – a contesti scolastici opprimenti, da wormhole e loop a politica, famiglia e primi amori. Siamo nel 1988, è in corso la sfida tra George H.W. Bush e Michael Dukakis, i paesaggi sonori spaziano da Echo & The Bunnymen ai Joy Division, dai The Church ai Tears for Fears (Mad World nella versione ormai iperconosciuta di Gary Jules e Michael Andrews), in classe Graham Greene viene demonizzato mentre gli insegnamenti retrogradi del santone Jim Cunningham (Patrick Swayze) vengono ampiamente lodati. Lo scenario sembra quasi davvero proiettarci in un film degli anni ’80, ma la vera aria che si respira in Donnie Darko è quella di una tensione apocalittica più vicina al nostro presente rispetto al passato, una spinta destabilizzante che cerca una soluzione al proprio degrado in un’azione ricorsiva e soprattutto incontrollabile.

È nell’incontro/scontro tra Donnie e Frank, doppi che appaiono come tali ma che allo stesso tempo non lo sono mai realmente, in bilico tra sogni e ipnosi terapeutiche, che forse si rende possibile un’interruzione di quel loop e ricorso stantio, in modo da permettere un ritorno del mondo “sulla retta via”. Nel riconoscimento della propria non ordinarietà, Donnie ritrova una chiave d’accesso per il reale attraverso un fatalismo esistenzialista conturbante, istituendosi come un ritratto estremizzato – ma terribilmente veritiero – di un insieme di derive dell’uomo che riguardano da vicino e nel complesso i problemi del quotidiano, la difficile accettazione del proprio sé, le opprimenti sfide sociali e, soprattutto, l’interfacciarsi proficuamente con l’alterità. Da questo punto di vista, è facile capire perché Donnie Darko è diventato un cult, in quanto manifesto generazionale e perfetta sintesi di alcuni degli orizzonti identitari predominanti nel tessuto contemporaneo.

Daniele Sacchi