Gli spiriti dell’isola, la recensione del film di Martin McDonagh (Venezia 79)

Gli spiriti dell'isola

Gli spiriti dell’isola (The Banshees of Inisherin il titolo originale) di Martin McDonagh rappresenta per il regista e sceneggiatore britannico di origini irlandesi un ritorno ad atmosfere meno vigorose rispetto all’intensità che si poteva respirare nel precedente Tre Manifesti a Ebbing, Missouri. Non per questo, però, è da considerarsi come un’opera minore. Il suo ultimo film è una commedia drammatica sulla fine di un’amicizia che si sofferma soprattutto sull’inesorabilità di un certo peso esistenziale, sulla solitudine e su ciò che resta di noi dopo la morte.

Su una piccola e remota isola irlandese negli anni ’20, Colin Farrell interpreta Pádraic, un uomo dalla vita pacifica e tranquilla che è solito trascorrere le proprie giornate al pub dedicandosi al bere e al sano gozzovigliare. Un giorno, all’improvviso, il suo lungo rapporto di amicizia con il vecchio violinista Colm (Brendan Gleeson) viene interrotto bruscamente da quest’ultimo, senza alcun apparente motivo. Che sia per la parlantina noiosa di Pádraic, per la sua irritante gentilezza o per il suo inguaribile ottimismo non è dato saperlo. L’uomo cercherà di ricucire il rapporto, ma Colm non sembra volerne sapere nulla, arrivando persino a minacciare azioni autolesioniste pur di non rivolgere più la parola a Pádraic.

Gli spiriti dell’isola mescola una peculiare – e spesso ilare – leggerezza di fondo nella stesura dei dialoghi con temi invece complessi ed articolati, esplorandoli da molteplici punti di vista. Il tumulto tra i due protagonisti viene paragonato con le tensioni della guerra civile irlandese, sfondo essenziale del film riecheggiato a più riprese dal suono delle bombe proveniente direttamente dalle coste irlandesi, a pochi chilometri dall’isola su cui vivono Pádraic e Colm. Anche sull’isola è in corso una guerra metaforica, combattuta però con severità e rifiuto da un lato, con gentilezza e volontà di riavvicinamento dall’altro. Lo scontro non si combatterà però solo con queste armi: arriverà un momento in cui, in un progressivo crescendo, la battaglia tra i due non potrà che inasprirsi.

McDonagh imbastisce al meglio la messa in scena del film per restituirci l’impressione di un villaggio vivo e soprattutto attento a tutto quello che accade al suo interno, dalle vivide preoccupazioni della sorella di Pádraic, Siobhán (Kerry Condon), sino all’insolenza del poliziotto locale, dai pettegolezzi del pub sino all’interesse morboso dell’anziana McCormick (Sheila Flitton), la quale rappresenta di fatto un’entità quasi spiritica e stregonica. La questione tra Pádraic e Colm diventa dunque un problema condiviso (persino dal problematico Dominic, interpretato da Barry Koeghan), la matrice di una crisi esistenziale che sembra trascinare tutti, in un modo o nell’altro, dentro il suo vortice inarrestabile.

A fronte di tutto questo interesse locale suscitato dalla fine dell’amicizia tra i due protagonisti, ne Gli spiriti dell’isola emerge un dettaglio importante, ossia lo sguardo animale. Lungo tutto il corso del film è possibile scorgere lo sguardo di diversi animali, come l’asinella Jenny di Pádraic o il suo pony, o ancora come il cane di Colm, poggiarsi sui protagonisti nei momenti di massima tensione. Al di fuori delle meccaniche sociali umane, lo sguardo animale si propone come un giudice imparziale, intento ad osservare le dinamiche in corso sull’isola con una distanza che è più rivelatoria di qualsiasi possibile soluzione risolutiva.

Non è un caso che l’imperdonabile infrangimento di questo sguardo animale costituisca, per Martin McDonagh, uno dei nodi predominanti negli sviluppi del film. Nella continua fusione dei registri del comico e del drammatico, McDonagh realizza dunque un’opera piacevole e che si dimostra ben consapevole nell’affrontare un certo tipo di conflitto identitario. L’unica ambiguità, forse, è da ricercarsi in un’eccessiva apertura nei momenti conclusivi, una questione comunque da poco che non deve essere necessariamente percepita come una sbavatura.

Le recensioni di Venezia 79

Daniele Sacchi