The Whale di Darren Aronofsky, la recensione (Venezia 79)

The Whale

Cinque anni dopo aver presentato alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia il controverso Madre!, Darren Aronofsky ritorna in concorso con un film più intimo, lasciando gli aspetti più “eccessivi” del suo cinema completamente da parte. The Whale, adattamento dell’omonima pièce teatrale di Samuel D. Hunter (che è anche sceneggiatore del film), racconta infatti la vita di un insegnante di letteratura inglese obeso, Charlie (un fenomenale Brendan Fraser), ormai incapace di alzarsi in piedi e di camminare autonomamente a causa del suo peso.

Per permettere allo spettatore di conoscere da vicino il personaggio di Charlie, Aronofsky decide di girare la maggior parte del film all’interno della sua abitazione, dalla quale l’uomo – per forza di cose – non riesce più ad uscire. Vi è anche una scelta volontaria, però, da parte di Charlie, e Aronofsky ce lo comunica immediatamente nei primissimi minuti del film: il protagonista, infatti, non desidera assolutamente recarsi in ospedale nonostante la sua vita sia prossima al termine. The Whale è la cronaca degli ultimi giorni di un uomo solo, malato e profondamente depresso che desidera solamente riconnettersi con la figlia adolescente Ellie (Sadie Sink).

Nel microcosmo rappresentato dalla piccola casa di Charlie, all’interno della quale ormai fatica anche a muoversi e dove raccogliere un oggetto caduto per caso risulta come una missione impossibile, Aronofsky presenta uno dopo l’altro una serie di figure – dalla tutrice Liz (Hong Chau) sino ad arrivare al giovane missionario Thomas (Ty Simpkins) – che si interfacciano progressivamente con l’uomo, in modo da farci entrare in contatto diretto con la sua personalità, con il vero volto che si cela dietro ai problemi fisici e al continuo fagocitare cibo.

Brendan Fraser indossa un’immensa fat suit, una tuta protesica che trasforma completamente il suo corpo attoriale, ma questo particolare non appare mai come un limite e, anzi, sembra spronare Fraser a dare il meglio portandolo a quella che di fatto è l’interpretazione migliore della sua carriera. Si tratta di un grande successo per un attore che, nel corso degli anni, ha dovuto affrontare a sua volta diversi problemi di salute e di depressione.

Se nell’esplorazione dei motivi dietro all’obesità di Charlie vi è una gran cura ed empatia, specialmente nel tratteggiare l’arduo processo di riconnessione con la figlia Ellie, lo stesso non si può dire per il sottotesto religioso, un’ossessione che perseguita Aronofsky in tutti i suoi film più recenti e che, di nuovo, appare superflua o comunque poco inquadrata nell’economia complessiva di The Whale. Vengono gettati in un grande calderone temi come la percezione cristiana dell’omosessualità, la santificazione del proprio corpo e del proprio spirito, le contraddizioni delle missioni evangeliche, con la crisi spirituale di Aronofsky che sembra a volte prendere il sopravvento sulle questioni più strettamente umane e relazionali esaminate nel corso del film.

Ad eccezione di questa sbavatura, The Whale è un film incredibilmente emotivo, accurato nell’esaminare la spirale discendente determinata dal trauma della perdita («giacché tutti gli uomini di tragica grandezza diventano tali per un che di morboso», scriveva Herman Melville in Moby Dick), spietato nel mostrare l’ingordigia insaziabile di Charlie, intimo nel cercare di risolvere un riavvicinamento paterno che a tratti sembra quasi impossibile. The Whale è dunque un’opera di ritorni, per Fraser con la sua grande prova attoriale, per Aronofsky nel ritrovare il buon cinema, e per lo stesso Charlie, che con un figurato ritorno al passato può finalmente ambire a liberarsi e a credere così nel futuro di sua figlia.

Le recensioni di Venezia 79

Daniele Sacchi