Il regista statunitense Peter Farrelly è conosciuto perlopiù per i suoi lavori realizzati con il fratello Bobby, spesso caratterizzati da un certo tipo di comicità irriverente e a tratti demenziale, come nel caso di Scemo & più scemo (1994), o dall’aderenza agli stilemi della romcom, di cui Tutti pazzi per Mary (1998) è l’esempio migliore. Nel caso di Green Book (2018), questi aspetti sono stati marginalizzati o rimossi, e Farrelly è così riuscito in assenza del fratello a realizzare un connubio efficace tra la commedia e il dramma, permettendo alla trama di svilupparsi in modo da far emergere con chiarezza il suo messaggio rispetto alle particolarità del suo stile. Un messaggio estremamente attuale che, sebbene non sia particolarmente nuovo all’interno del panorama cinematografico hollywoodiano, è ancora oggi qualcosa di necessario da ribadire.
Proprio da questo punto di vista, non sarebbe corretto guardare a Green Book come al “solito film sulla tematica razziale”. Il film di Farrelly organizza sì la propria narrazione attorno ad una riflessione sul razzismo, sull’incomprensione di chi viene percepito come “diverso” e sulla sua discriminazione, ma cerca allo stesso tempo di andare al di là della tematica in sé per affrontare invece un’indagine sull’uomo e su ciò che ci avvicina l’un con l’altro. L’idea di centralizzare la narrazione sui meccanismi sociali che ci portano all’accettazione dell’altro piuttosto che su quelli che, storicamente, hanno imposto delle effettive divisioni è un pregio non da poco all’interno di un orizzonte proprio come quello del cinema americano in cui il focus solitamente sta per l’appunto dall’altro lato, come, per citare qualche titolo esemplificativo, nei comunque interessanti Fruitvale Station (2013, Ryan Coogler), Moonlight (2016, Barry Jenkins) o Get Out (2017, Jordan Peele).
Nello specifico, Green Book narra quelli che sono dei fatti apparentemente accaduti nella realtà, prendendosi qualche ovvia libertà a riguardo, cercando di approfondire il rapporto di amicizia nato durante gli anni ’60 tra il pianista afroamericano Don Shirley e il suo autista e bodyguard italoamericano Frank “Tony Lip” Vallelonga, interpretati rispettivamente da Mahershala Ali e da Viggo Mortensen. La sceneggiatura è scritta, oltre che da Farrelly stesso e da Brian Hayes Currie, anche dal figlio di Tony stesso, Nick Vallelonga, che ha raccolto le idee per il film dal racconto diretto del padre e da alcune lettere che quest’ultimo aveva inviato alla madre durante i suoi viaggi.
È proprio la dimensione del viaggio a fungere da collante per la storia che lega i due protagonisti di Green Book. Tony, dopo la chiusura del locale per il quale lavorava come buttafuori, è in cerca di una nuova occupazione in modo da poter continuare a sostenere economicamente la moglie e i figli. L’opportunità che gli viene proposta è quella di accompagnare il pianista jazz Don Shirley in qualità di autista e bodyguard per il suo tour nel Midwest e nelle regioni meridionali della costa orientale statunitense (il cosiddetto Deep South, il profondo Sud), tradizionalmente ancora molto legate a idee terribilmente retrograde e chiuse nei confronti della comunità afroamericana.
Lo sviluppo del rapporto tra i due è ben orchestrato e di fatto si presenta come il vero cuore del film. La caratterizzazione di Tony e di Don, grazie anche all’incredibile lavoro svolto dagli attori che li impersonano (e notevole è in particolare l’interpretazione tesa tra l’italiano e l’inglese operata da Mortensen, ironicamente lost in translation nella versione doppiata in italiano), è di altissimo livello e si muove verso una rappresentazione dei due come personalità diametralmente opposte ma, nella loro diversità, incredibilmente complementari. Come anticipato, il tentativo di Green Book di presentare la necessità di una ricerca perlomeno abbozzata verso il completamento della propria natura con il vivere concretamente l’esperienza dell’altro, soprattutto di fronte a profonde diversità sia culturali sia più strettamente individuali, lo rende un film sorprendentemente riuscito nel suo rendersi capace di fornire una chiave di lettura per ciò che, tutt’oggi, ci circonda.
Senza tuttavia dimenticare di coinvolgere il proprio spettatore con un po’ di leggerezza e di spensieratezza tra una riflessione e l’altra, Green Book è nel complesso un’opera che riesce a sfruttare il medium cinematografico su più livelli, ponendosi in una zona intermedia che prevede un richiamo sensibile dell’umanità al valore fondamentale dell’empatia, ma che allo stesso tempo non vuole porre un peso eccessivo sulle tematiche che affronta. Un lavoro equilibrato dunque, che proprio in virtù dell’armonia tra le sue parti riesce a risultare come estremamente d’impatto.
Daniele Sacchi