Il morso del coniglio, la recensione del film

Il morso del coniglio

La disgregazione del nucleo familiare, la rimozione freudiana, così come una più generale esplorazione del trauma della perdita sono alcuni dei temi fondamentali dell’horror contemporaneo. Il morso del coniglio (Run Rabbit Run), film australiano diretto da Daina Reid e distribuito da Netflix, è perfettamente in linea con la direzione più recente intrapresa dal genere. Ciò che manca è una vera originalità di fondo, una suggestione o anche solo un guizzo stilistico che gli permetta di differenziarsi concretamente all’interno di un oceano di produzioni variegato e complesso.

Il film, sceneggiato dalla scrittrice Hannah Kent, è di fatto un tiepido tentativo di riprendere un immaginario orrorifico già esplorato a fondo – e con vigore – da opere come The Babadook e Hereditary. Nonostante la volontà esplicita di allinearsi a questo tipo di produzioni, Il morso del coniglio si muove su binari lineari e prevedibili, scelte creative sicure che lo avvicinano maggiormente ad un thriller psicologico di quart’ordine, incapace di graffiare in profondità.

Al centro delle vicende raccontate nel film troviamo la piccola Mia (Lily LaTorre). Dopo il settimo compleanno della bambina, coincidente all’improvvisa apparizione di un coniglio, il suo comportamento cambia inspiegabilmente, tra disegni tetri, sbalzi di umore e affermazioni insensate. Per Sarah (Sarah Snook), la madre di Mia, gestire la situazione si dimostrerà un compito arduo, specialmente quando la bambina incomincerà a sostenere di essere Alice, la sorella scomparsa di Sarah.

Il film, a monte, potrebbe anche essere giudicato come un compitino riuscito. Le caselle sono state tutte spuntate, gli elementi necessari a portare la narrazione da un punto A ad un punto B sono presenti. Aderire ad una formula, tuttavia, non è sufficiente. Escludendo la riproposizione del già visto, che non deve essere necessariamente percepita come un difetto a tutti i costi, ciò che manca realmente ne Il morso del coniglio è la tensione drammatica. Senza atmosfera né pathos, il coinvolgimento emotivo del film è frenato da uno sviluppo narrativo a linea retta, nonché dalla vuotezza dei suoi simboli, in primis il coniglio bianco del titolo.

La prova attoriale di Sarah Snook, perlomeno, è di buon livello. L’attrice australiana, la cui performance in Succession è stata a lungo acclamata, è tenuta a freno solamente dalla semplicità dello script, ma è comunque anni luce avanti rispetto a quanto visto ad esempio in Oscure presenze, per citare un film simile nei toni. La sua prova non basta in ogni caso a dare sostanza ad un film innocuo e derivativo che, se da un lato potrebbe anche risultare come una visione sopportabile per lo spettatore comune e con poche esigenze, difficilmente troverà sostenitori tra gli appassionati di un certo tipo di proposta cinematografica.

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Daniele Sacchi