“Il sangue di un poeta” di Jean Cocteau – Recensione

Il sangue di un poeta

Regista, sceneggiatore, pittore, drammaturgo, scrittore… Ma prima di tutto poeta. È proprio la poesia il fine ultimo verso il quale tende Jean Cocteau con il suo lavoro, rendendola di fatto una componente onnipervasiva della sua espressione artistica. Il sangue di un poeta (1930) è in tal senso la prima vera e propria rappresentazione cinematografica dell’idea di poesia di Cocteau, un’idea che vede alla sua base una sfuggevolezza che si dà necessaria all’opera d’arte per far sì che i suoi petali si aprano lentamente e non appassiscano, come d’altronde egli stesso affermava.

Il segreto della poesia per Cocteau risiede nel trasportare gli elementi dell’ordinarietà in contesti diversi per mostrarli da un’altra prospettiva, per permetterci di osservarli nuovamente come se fosse la prima volta e pertanto per caricarli di nuovi significati. Il sangue di un poeta è una messa in scena letterale di quest’idea. Prima opera della trilogia orfica del regista francese, che comprende anche Orfeo (1950) e Il testamento di Orfeo (1960), il mediometraggio di Cocteau è finanziato dal visconte Charles de Noailles, che nello stesso periodo aveva prodotto anche L’âge d’or di Luis Buñuel e di Salvador Dalí.

Il film è strutturato in quattro parti interconnesse tra di loro, il cui intreccio può essere riassunto in poche parole. Un artista raffigura un volto, ma la bocca del disegno inizia a muoversi: sconvolto, la cancella, ma la bocca ora è sul palmo della sua mano. Dopo averla posta su una statua, quest’ultima gli parla e lo convince ad attraversare uno specchio che lo trasporta in un hotel, tra i cui bizzarri coinquilini figurano un fumatore d’oppio e un ermafrodito. Una volta tornato, una voce lo istruisce a prendere la pistola e a spararsi in testa, ma dopo averlo fatto inutilmente decide di fare a pezzi la statua in un gesto di pura follia iconoclasta. In seguito, un gruppo di ragazzini gioca con la neve, ma una palla si trasforma in marmo e un bambino viene ferito a morte. Sul suo corpo esanime, una partita a carte finisce in tragedia: uno dei giocatori si suicida dopo aver perso e la sua sfidante si trasforma nella statua distrutta durante il secondo atto.

Il sangue di un poeta

Proprio come L’âge d’or, Il sangue di un poeta è un concentrato di surrealismo visivo, con l’enorme differenza che Cocteau non fa dell’onirismo la sua meta. Le cascate di immagini spesso conturbanti che l’artista francese presenta nella sua opera, come maschere e modelli di teste umane roteanti, scalfiscono la percezione spettatoriale ma non mirano a raggiungere quella Realtà Assoluta che André Breton (che di Cocteau non aveva una grande stima) aveva teorizzato nel suo Manifesto del Surrealismo, bensì appaiono come mere intrusioni segniche all’interno di un orizzonte significativo non chiaramente delimitato.

In apertura infatti, Jean Cocteau inserisce una dedica particolare alla memoria di Pisanello, Paolo Uccello, Piero della Francesca e Andrea del Castagno, «pittori di enigmi». Il sangue di un poeta è un enigma a sua volta, ma la chiave di lettura per comprendere il significato della sua trama e delle interconnessioni tra le sue parti non viene fornita. Lo spettatore si trova di fronte pertanto ad un viaggio nell’immaginazione del suo autore, all’interno di una raccolta parzialmente autobiografica delle istanze proprie della sofferenza umana, a partire in primo luogo dai numerosi accenni al suicidio del padre.

Arte, oppiacei, sessualità, dolore e morte. Il sangue di Jean Cocteau, la sua immaginazione, la sua vita, o più semplicemente la sua poesia, diventano pura rappresentazione simbolica. Simboli che grazie al medium cinematografico possono tramutarsi in immagine-movimento, ambendo pertanto, deleuzianamente, a determinare una forma del pensiero che prenda le mosse direttamente dall’immagine cinematografica stessa.

Daniele Sacchi