“Orfeo” di Jean Cocteau – Recensione

Orfeo

Variazione del celebre mito greco di Orfeo, il film del 1950 di Jean Cocteau può essere considerato senza ombra di dubbio come una delle pietre miliari della storia del cinema. Orfeo infatti non è solamente una semplice rivisitazione della tragedia classica, ma è soprattutto una densa riflessione esistenzialista sull’uomo, sulla morte, sulla poesia. Seconda parte della trilogia orfica del poliedrico autore francese, comprendente anche Il sangue di un poeta (1930) e Il testamento di Orfeo (1960), l’opera trasporta la storia d’amore tragica tra Orfeo e Euridice nella Parigi del dopoguerra, sottoponendo ai propri spettatori un intrigo che sin dalle sue battute iniziali mette in risalto le proprie componenti più filosofiche e spirituali.

Orfeo, interpretato da Jean Marais (compagno di vita di Cocteau e apparso già ne La bella e la bestia, 1946), è un famoso poeta che durante una visita al Café des Poètes di Parigi si trova coinvolto in una rissa causata da un giovane di nome Cégeste, interpretato da Édouard Dermit. Durante la colluttazione, Cégeste viene investito da due motociclisti e la sua accompagnatrice, introdotta come la Principessa (María Casares), chiede a Orfeo di salire sulla sua automobile per fare da testimone mentre portano il corpo in ospedale. Cégeste tuttavia è già morto e in realtà il conducente del mezzo, la cui radio trasmette dei messaggi apparentemente incomprensibili, li sta trasportando in un castello in rovina, all’interno del quale la Principessa, in realtà un’agente della Morte, rianimerà il giovane per poi sparire insieme a lui in uno specchio. L’esperienza, insieme agli strani messaggi radio e all’influenza di Heurtebise, l’autista della Principessa interpretato da François Périer, porterà Orfeo a trascurare la moglie Euridice (Marie Déa) e a trasformare la sua passione e lavoro per la poesia in un’ossessione.

Orfeo racconta una storia intricata fatta di intrecci amorosi, di vita e di morte, di poesia astratta, di ricerca dell’immortalità attraverso l’arte. Prima di tutto però, Orfeo è un film estremamente personale del suo autore, ricco di quei tratti della sua poetica e della sua visione estetica tipici della sua produzione artistica. Come accadeva ne Il sangue di un poeta, l’idea della poesia come fine ultimo si dà come evidente all’interno dell’opera, esemplificata dal suo protagonista e dalla sua richiesta alla Principessa di renderlo un poeta immortale: un atto che non potrà che sussistere se non con l’annichilimento totale del desiderio amoroso della Principessa nei suoi confronti, un atto che causerà un inevitabile, quanto incredibilmente sofferente per l’agente della Morte stessa, reset di parte degli eventi del film.

Orfeo

L’opera di Cocteau non mira pertanto ad alcuna forma di realismo, e nemmeno ricerca alcun realismo nell’irrealtà: «quando creo un film, è un sogno in cui sono io che sto sognando: solo le persone e i luoghi del sogno sono importanti». Pensato come un’enorme allegoria, Orfeo è un film ricco di elementi accessori che però svaniscono di fronte al suo disegno più ampio, esemplificato dalle relazioni intersoggettive dei suoi protagonisti, ossia l’affermazione della creazione artistica come un processo che può trascendere la vita stessa dell’essere umano.

Al di là dei significati che possiamo trarne, Orfeo è però anche una grande prova di mise en scène da parte di Cocteau. Gli eccessi avantgarde de Il sangue di un poeta sono stati limitati per lasciar spazio a riprese montate inversamente di corpi che ritornano in vita, di vetri infranti, di guanti che se indossati permettono di attraversare specchi. Specchi che, come nel primo film della trilogia orfica, consentono l’accesso ad altri mondi, come in questo caso quello ultraterreno. Specchi che inoltre si presentano come un’ulteriore rappresentazione simbolica, come ci conferma l’evanescente Heurtebise: «gli spec­chi sono le porte attra­verso le quali la morte viene e va; del resto, guar­da­tevi tutta la vita in uno spec­chio e vedrete la morte lavo­rare come api in un alveare di vetro».

La morte può in ogni caso essere superata attraverso la creazione artistica, concepita da Cocteau come un vero e proprio processo di rinascita individuale per Orfeo che deve inevitabilmente passare attraverso l’accettazione del suo amore per la Principessa, per la Morte, autocostrettasi al sacrificio. Un lungo viaggio spirituale quello di Jean Cocteau che afferma il suo genio di artista a tutto tondo, capace di saper esportare la propria visione del mondo, dell’uomo, della poesia e dell’arte attraverso media espressivi molto diversi tra di loro. E fortunatamente, il cinema è tra questi.

Daniele Sacchi