“Kairo – Pulse” di Kiyoshi Kurosawa – Recensione

Kairo

Kairo (conosciuto anche con il titolo Pulse) è un film del 2001 diretto da Kiyoshi Kurosawa che, insieme a opere come Ringu (1998, Hideo Nakata), Ju-On (2002, Takashi Shimizu) e Dark Water (2002, Hideo Nakata), si dimostra essere un ottimo tentativo di integrare al genere horror una forte critica sociale. Il regista giapponese, infatti, arricchisce il già vasto orizzonte produttivo orientale dedicato all’analisi dell’impatto di alcune realtà proprie della contemporaneità sul tessuto sociale attraverso una narrazione che fonde diversi elementi orrorifici e sovrannaturali con la necessità di indagare il reale e i suoi problemi, rifuggendo dunque dalla mera esaltazione dello shock value e adoperando invece gli stilemi del genere di riferimento per evidenziare a dovere le criticità esaminate.

Nello specifico, Kairo si concentra su alcuni personaggi chiave, Michi (Kumiko Aso) e Ryosuke (Haruiko Katô), per raccontare quella che inizialmente appare come una semplice ghost story, come evidenziato ad esempio dalla misteriosa morte di uno dei colleghi di Michi, Taguchi (Kenji Mizuhashi). Sul computer di quest’ultimo, infatti, la ragazza trova una serie di fotografie che lo riguardano nelle quali è possibili scorgere una figura spettrale, probabilmente causa del breakdown mentale del ragazzo. Presto, diventa evidente come il problema riguardi l’intera Tokyo: il mistero attorno alle presenze fantasmatiche che sembrano aver invaso la capitale giapponese pare essere legato a dei luoghi specifici, delle “stanze proibite” sigillate da un nastro rosso le quali finiscono per condizionare gravemente le vite dei suoi visitatori, conducendoli ultimamente alla morte.

Tuttavia, come diventa presto evidente, Kairo non è un film che parla solamente di fantasmi in quanto tracce provenienti dall’aldilà, apparentemente malvagie e in cerca di un qualche tipo di compensazione. L’opera di Kiyoshi Kurosawa in realtà è maggiormente interessata all’analisi dell’uomo e dei suoi rapporti con l’alterità, mostrando pertanto una sincera attenzione alla nostra epoca storica e ai media che si trovano inevitabilmente ad influenzarne le trame, la quotidianità e la qualità delle relazioni intersoggettive.

Kairo

In tal senso, Kairo si presenta come una metafora intelligente sulla condizione dell’essere umano nella contemporaneità. I fantasmi reali della nostra epoca rischiamo di diventare noi stessi, e Internet sembra essere uno dei mezzi che più di altri rischia di allontanarci l’un l’altro. La connessione che ci garantisce la rete non sarebbe nient’altro che un mezzo attraverso il quale affermare il nostro isolamento: siamo tutti connessi, ma allo stesso tempo siamo isolati, lontani, assenti seppur presenti. Kairo a tal proposito ci mostra sin dalle sue battute iniziali come le energie che si sono materializzate a Tokyo siano strettamente collegate alle potenzialità della rete. L’uomo rischia di perdere se stesso su Internet e diventare a sua volta un fantasma, un ente alienato che non sembra più in grado di riconoscere la propria forma.

Perdendo la propria materialità, l’uomo diventa interferenza, ombra, macchia. In termini stilistici, Kyoshi Kurosawa trasforma realmente l’uomo nella sua ossessione mediale attraverso l’immagine cinematografica, ma il risultato non può che essere caratterizzato da imperfezioni intrinseche. Lo spettatore, in tal senso, viene inondato di interferenze, tracce sfumate, visi che appaiono in lontananza ma che scompaiono fugacemente, luce che diventa oscurità e viceversa. Le persone diventano letteralmente macchie nere sul muro, perdendo la propria essenza e la corporeità che le lega al reale, trasformando così elementi senza forma come la solitudine e l’angoscia in sostanza che può essere osservata, toccata e persino ascoltata. Di frequente, infatti, le macchie stesse sembrano parlare e chiedere aiuto, mutando a volte nel loro corrispettivo corporeo ma solo per un breve istante, come se il restare ancorate alla realtà non sia per loro nient’altro che una vana speranza.

Con Kairo, Kurosawa non è dunque interessato a parlarci dell’aldilà, della morte in sé e di ciò che essa rappresenta per l’umanità. Il regista sembra piuttosto voler allertare lo spettatore nei confronti del disagio connettivo che percepisce come particolarmente proprio del suo Paese, il Giappone, disagio che in ogni caso può essere riscontrabile in altri contesti e realtà. Richiamando così l’uomo a creare legami tangibili e non illusori, Kiyoshi Kurosawa sembra così ricercare con la sua opera precisi imperativi morali che spingano l’uomo a cercare di migliorare la qualità delle sue relazioni interpersonali, nel rispetto di se stesso e degli altri.

Daniele Sacchi